“Il lavoro? A noi piace pop”. Al via la 4° edizione di Working Title Film Festival

Intervista a Marina Resta, direttrice artistica di Working Title Film Festival, dal 1° al 5 ottobre a Vicenza. Un piccolo grande festival resistente. “Mostriamo il cinema sul lavoro che ha una vitalità senza precedenti – dice Marina Resta -. Non diamo etichette, i nostri film prescindono dal formato e dai minuti. Lavoriamo sull’immaginario del lavoro per svecchiarlo e donargli un po’ di leggerezza e spirito pop”. Nel programma titoli da tutto il mondo. Bookciak Magazine è media partner della rassegna …

 

Martedì 1° ottobre a Vicenza inizia il Working Title Film Festival, festival italiano dedicato al cinema del lavoro, arrivato sulle scene  da quattro anni e a distanza di una decina dalla fugace esperienza di Cinema &/è lavoro di Terni. Un programma ricco di appuntamenti che proseguirà nella città fino al 5 ottobre. Ma soprattutto un piccolo festival, tenace e resistente, che in quattro edizioni si è imposto come evento importante, ed è facile prevedere che crescerà ancora. Ne parliamo con la direttrice artistica, Marina Resta.

 D. Il Working Title Film Festival è attualmente l’unica manifestazione italiana sul cinema del lavoro. Quattro anni fa, al momento della nascita, come vi è venuta l’idea?

R. L’idea è nata dopo aver realizzato il documentario “L’acqua calda e l’acqua fredda”, una storia di operai di acciaieria tra Vicenza e Giovinazzo, in provincia di Bari. Inviandolo ai festival, io e il co-autore Giulio Todescan (che è co-organizzatore e ufficio stampa di WTFF) ci siamo resi conto che non ne esistevano di specifici sul tema del lavoro sul territorio nazionale. Inoltre l’anteprima vicentina del film ha fatto nascere una collaborazione che ha aperto la strada all’organizzazione della prima edizione del festival, nel 2016. C’è poi una motivazione personale e generazionale: personale perché io stessa ero alla ricerca di una prospettiva lavorativa in ambito cinematografico – che è il mio ambito di formazione -, generazionale perché la mia condizione è condivisa soprattutto da chi è nato negli anni Ottanta e il festival nasce anche per essere una piattaforma di riflessione sul cambio di paradigma che ha investito il lavoro e quindi la società negli ultimi trent’anni in particolare. Il nome del festival significa “titolo di lavorazione”, e porta con sé il concetto di precarietà da un lato, ma anche di creatività e di generatività dall’altro. Quindi questo festival non vuole semplicemente parlare di lavoro in modo generico, ma parlare del lavoro attraverso gli sguardi e i linguaggi contemporanei, audiovisivi e non solo.

D. Nell’arco di tre anni, seppure sia un piccolo festival, molti titoli importanti sono passati a Vicenza. Un esempio per tutti è “Il gesto delle mani” di Francesco Clerici, il film sulle sculture di Velasco Vitali girato nella Fonderia Artistica Battaglia di Milano. Voi lo avete ospitato, poi si è diffuso, ha raggiunto le sale: insomma ci avete visto giusto. Quali sono i titoli passati da qui che ricorda con più piacere?

R. La prima edizione non era competitiva e i film presentati li ho selezionati tra le proposte più interessanti passate per i festival internazionali in quell’anno o nell’anno precedente. Il gesto delle mani aveva già vinto il premio Fipresci nella sezione Forum della Berlinale, quindi non posso dire di averlo scoperto io, ma sicuramente di averlo fatto scoprire al pubblico vicentino. Tra i titoli di cui vado più orgogliosa cito dalla prima edizione Il successore di Mattia Epifani e UPM Unità di produzione musicale di Pietro de Tilla, Elvio Manuzzi e Tommaso Perfetti, dalla seconda due film in anteprima italiana come Grands Travaux dei registi belgi Olivia Rochette e Gerard-Jan Claes e De Hoeder dell’olandese Joost van der Wiel e Miewoharu (in anteprima europea) della giapponese Akyo Fujimura, dalla terza Talien di Elia Mouatamid, Il monte delle formiche di Riccardo Palladino e l’austriaco 8:30 di Laura Nasmith e Philip Leitner, i corti Death of the Sound Man del thailandese Sorayos Prapapan e il tedesco Stakleni Horizont di Denis Pavlovic. Infine due film della sezione Extraworks inaugurata nel 2018, Esseri dello svizzero Tommaso Donati e Mitarbeiter des Monats della tedesca Caroline Schwarz. Nella maggior parte dei casi si tratta di opere di autori molto giovani, ma che esprimono una visione sul mondo (del lavoro e non solo) attraverso sguardi e approcci estetici originali. Sono nate relazioni durature, ad esempio con alcuni registi dell’area belga e olandese, anch’essi molto giovani, che realizzano film documentari di osservazione dalla fotografia molto curata ma caratterizzati anche da una consapevolezza del mezzo e dei linguaggio e da un approccio mai superficiale sui vari temi legati al lavoro (e non solo).

 

D. La forma e il programma del festival mi pare in continua evoluzione. Per esempio qualche mese fa avete presentato il progetto “WTFF@Ferrovieri”, dedicato al lavoro ferroviario. Di cosa si tratta?

R. Il progetto sul quartiere vicentino dei Ferrovieri è una sorta di spin-off del festival, che si è svolto tra l’ottobre 2018 e il febbraio 2019 grazie al contributo del bando Sillumina della SIAE e del bando cultura della Fondazione Cariverona. Abbiamo prodotto tre cortometraggi documentari di altrettanti registi under 35, Davide Crudetti, Carlo Tartivita e Chiara Faggionato, su questo quartiere nato un secolo fa attorno alle Officine Grandi Riparazioni delle Ferrovie dello Stato, tuttora esistenti. Un quartiere con una storia peculiare per questa città, abitato fin da subito da famiglie provenienti da tutta Italia e che ha vissuto in prima linea le vicende della Prima guerra mondiale, della Resistenza e delle lotte operaie. Abbiamo fatto immergere i tre registi tra memorie, storie di vita, filmati Super 8 raccolti tra le famiglie dei Ferrovieri, e la realtà piuttosto “normalizzata” di oggi. Ne sono nati tre lavori che, rivisti proprio pochi giorni fa per una proiezione in quartiere, hanno una forte originalità di sguardo e mettono in atto una dialettica non scontata tra passato, prima contadino e poi operaio, e presente. Il progetto prevedeva anche tre incontri laboratoriali aperti alla cittadinanza e ai registi, che hanno preceduto la fase produttiva, e una rassegna cinematografica durante la quale sono stati proiettati i tre cortometraggi realizzati e altre opere di registi italiani sul tema del lavoro e delle periferie.

D. Passando all’edizione di quest’anno, prima di tutto mi ha colpito la sigla: c’è un astronauta che ruota come l’Uomo vitruviano di Leonardo, incontra una serie di elementi lavoristici e poi cita perfino Il Dottor Stranamore. Come la commenti? In generale tutto, nel vostro festival, appare molto curato.

R. Il video di apertura è stato realizzato da Chiara Cant di The Magic Collective, una motion graphic designer vicentina che ha utilizzato le immagini di pubblico dominio dell’archivio online della NASA, che fin dalla prima edizione ci divertiamo a “saccheggiare” per le grafiche del festival. Lei poi ci ha messo la sua creatività: oltre alle citazioni colte che hai notato, ci sono, per esempio, anche un astronauta che fa twerking e una locomotiva da cui sbocciano fiori. L’intento che abbiamo condiviso con Chiara è quello di lavorare sull’immaginario del lavoro per svecchiarlo, togliergli di dosso le incrostazioni di seriosità e donargli un po’ di leggerezza e spirito pop. Contribuisce all’ottimo risultato il brano Aurora di Luca Scapellato, in arte LSKA, che compone musiche elettroniche dalle atmosfere sospese. Con lui la collaborazione è consolidata: per il progetto sui Ferrovieri ha realizzato una sonorizzazione live dei video Super 8 delle famiglie del quartiere, e anche nello spot per la nostra ultima campagna di crowdfunding abbiamo utilizzato un suo brano, Joao’s Head. A proposito della “cura” che tu evidenzi, sicuramente il progetto grafico di Andrea Xausa, che ci accompagna da tre anni, ci dà grande riconoscibilità. Ma prestiamo attenzione anche ad aspetti meno visibili come l’ospitalità e la realizzazione dei sottotitoli in italiano, con la collaborazione dell’interprete e traduttrice Giulia Galvan e dallo scorso anno degli studenti della Scuola superiore per mediatori linguistici di Vicenza.

D. Entrando nel vivo del programma, saranno cinque giorni pieni di eventi. Con due importanti prime visioni: “Di acqua, di fuoco e quello che resta” di Matteo Ninni e “Cold Blow Lane” di Penny Andrea, che si definisce un “neo-noir”…

R. I due film sono rispettivamente quello di apertura e quello di chiusura del concorso. Di acqua, di fuoco e quello che resta di Matteo Ninni è un mediometraggio documentario di osservazione, che colpisce fin dalle prime inquadrature per una fotografia molto lirica, che amplifica la bellezza persino della nebbia in Val Vigezzo, in Lombardia. È un film che incarna molto bene il discorso sul lavoro in tutta la sua complessità: parla infatti di lavoro di montagna, lavoro edile e lavoro artistico, incarnati da Gabriele Cantadore, operaio edile e artista, che nelle sue opere rielabora i materiali e gli oggetti del suo luogo di nascita. Cold Blow Lane è invece un film di finzione dalle atmosfere lynchane e con dei richiami anche a Blow Up di Antonioni, la cui protagonista, Mary Henry, interpretata dall’attrice Grace Chilton, fa un lavoro molto misterioso, alle dipendenze di Mademoseille, una boss interpretata da Susan Lynch, e della sua protetta (Lorna Nickson Brown che è anche produttrice del film). Senza svelare troppo la trama, si può leggere in Cold Blow Lane una metafora dell’implosione del Regno Unito in epoca di Brexit: i personaggi compiono lavori e azioni quasi incomprensibili, sono scollati dalla realtà e rischiano di sgranarsi e di scomparire addirittura dall’inquadratura, man mano che la macchina da presa si avvicina.

D. Il Working Title intende il lavoro in senso complessivo. Per esempio in “Drømmeland” c’è la storia di un uomo che fugge dalla società e va a vivere sulle montagne, con un cavallo e uno smartphone. Qui l’occupazione sembra assumere un senso di riflessione sulla società del lavoro, ovvero sul “pensiero del lavoro”, da cui il protagonista si dissocia. Cos’è il lavoro per voi?

R. Drømmeland del regista olandese Joost van der Wiel (già vincitore di WTFF2 con il cortometraggio documentario De Hoeder, il cui protagonista era un medico novantenne ancora in attività), apparentemente non è un film sul lavoro. Non sappiamo che lavoro facesse il suo protagonista Niels prima di decidere di abbandonare la società, bruciando teatralmente il suo passaporto. Ma in realtà il sessantenne norvegese, immerso nella natura estrema, si ritrova a lavorare per la propria sopravvivenza procacciandosi il cibo e tagliando la legna. Inoltre armato di smartphone e di altri supporti tecnologici per comunicare con i suoi cari, li utilizza anche da influencer-guru, condividendo sui social riflessioni sull’esistenza e sulla sua esperienza di vita lontana dalla società urbana. Niels ha abbandonato la società e quindi anche il suo lavoro retribuito e contrattualizzato, ma in fondo lavora sodo, sia fisicamente che intellettualmente. Credo che il concetto di che cosa si possa qualificare come lavoro sia molto complesso e anche personale e sarebbe stupido non riconoscere il lavoro, come spesso succede in ambito creativo e intellettuale, quando non è pagato abbastanza o non è pagato affatto. Ovviamente il lavoro andrebbe sempre retribuito, ma prima di tutto va riconosciuto. Ci sono due film della sezione Extraworks – dedicata alla video-arte, al cinema sperimentale e ibrido – che offrono degli spunti di riflessione su questo tema: Can you see Work? una sorta di video diario in cui la regista Shubangi Singh, indiana trapiantata in Finlandia, si interroga e interroga i suoi amici artisti e ricercatori su che cosa voglia dire appunto lavorare e se anche dall’otium si possa effettivamente generare un negotium, se il flaneur di baudeleriana memoria stia in realtà effettivamente lavorando creativamente. Being and Becoming, un cortometraggio sperimentale e autobiografico della video artista catalana di base ad Amsterdam Maite Abella, invece rende evidente lo scarto tra le aspirazioni lavorative e la realtà.

D. Un festival va visto tutto, naturalmente, dall’inizio alla fine, ma quali sono le altre proiezioni da segnalare? Avrete registi in sala?

R. Quasi tutti i film saranno presentati dai registi o da altri membri del cast, che ci raggiungeranno da altre città italiane, dal Belgio, dall’Olanda, dalla Germania, dalla Spagna, dal Regno Unito, dalla Finlandia. Le presentazioni e la possibilità di dialogare con il pubblico rendono l’esperienza della visione ancora più ricca. Segnalerei due film molto diversi tra loro per stile e tema, ma che mi hanno colpito molto in fase di selezione. Ronco Rumor Remoto del regista spagnolo Jorge López Navarrete è un documentario sperimentale che demanda il racconto alle “sole” potenti immagini del paesaggio rurale montano del Perù che vibrano ai colpi di uno scalpellino-artista, intento a dare nuova vita all’edificio in pietra, dove viveva da bambino. Wir träumten vom Frühling/ My Russian Spring di Xenia Sigalova, regista russa che si è trasferita con la famiglia in Germania quando era adolescente, dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Il documentario racconta proprio il suo ritorno in Russia e l’incontro con tre suoi amici dopo quasi vent’anni: un film molto personale, che intreccia materiali d’archivio privati e pubblici e riprese di questo viaggio di ritorno. Un viaggio che le fa scoprire una società completamente cambiata e piena di contraddizioni, come quella putiniana, ma forse non ancora “adulta”, in cui i suoi amici ormai quasi quarantenni, ognuno a modo suo, si sono costruiti una posizione lavorativa e una vita. Tra i cortometraggi segnalo il documentario Het geluk van honden / A Dog’s Luck della regista olandese e belga di adozione Nina de Vroome per l’originalità del punto di vista, quello dei cani, protagonisti assoluti di questo film.

D. Ho notato che nelle vostre scelte non c’è differenza di durata: tra lunghi e cortometraggi, a mio avviso, avete ben presente che il cinema di oggi prescinde dal formato. Una cosa che ci piace può durare cinque o ottanta minuti. È d’accordo?

R. Fin dalla prima edizione ho affiancato opere diverse per genere e formato, senza dare particolare enfasi alle etichette. Con la seconda edizione e l’istituzione del concorso competitivo, ho mantenuto la commistione di generi e li ho suddivisi per durata tra lungometraggi & mediometraggi da un lato, e cortometraggi dall’altro, soltanto per rendere più equa la competizione. L’anno scorso abbiamo introdotto una nuova sezione “Extraworks”, dedicata alla sperimentazione: in questa sezione si possono trovare opere audiovisive molto eterogenee per genere, formato e durata, il documentario di osservazione, l’opera di video arte, il documentario ibrido, il video diario, la performance… In ogni caso vorrei far passare il concetto che non esiste un cinema di serie A o di serie B, ma esistono film più o meno interessanti per stile, temi, linguaggi.

D. So che avete visto molti film in sede di selezione. Quanti ne sono arrivati? Com’è andata?

R. Rispetto ad altri festival ci arrivano meno film, circa un centinaio, forse perché ancora non siamo così conosciuti e perché il festival è tematico. Paradossalmente in proporzione ci arrivano più film dal resto d’Europa – quest’anno in particolare Belgio, Germania e Spagna – che dall’Italia; ci sono pervenuti anche film dagli Stati Uniti, dall’Argentina, dallo Sri Lanka, dall’Iran. Devo dire con piacere che soprattutto quest’anno la qualità media era molto alta e mi è dispiaciuto doverne scartare, per motivi di slot a disposizione, qualcuno molto interessante esteticamente e originale nel linguaggio, ma meno focalizzato sul lavoro o meno coerente con le scelte di selezione. L’altro aspetto che mi inorgoglisce è l’alto tasso di iscrizioni di film a regia femminile di elevata qualità estetica e di grande varietà e originalità di sguardo, che si riflette su un alto tasso di selezione: più della metà dei film selezionati sono stati realizzati da donne, spesso molto giovani.

D. Uscendo dallo specifico, come sta il cinema sul lavoro oggi? A mio avviso, nei nostri anni abbiamo visto un dittico imprescindibile sul tema, “La legge del mercato e “In guerradi Stéphane Brizé. Tra l’altro voi, nel vostro festival, Brizé lo avete perfino sfiorato. Di lavoro al cinema si parla abbastanza o è ancora troppo poco?

R. Secondo me il cinema sul lavoro, soprattutto sul versante documentario, sta esprimendo una vitalità senza precedenti, utilizzando linguaggi e forme variegate. Forse tutto ciò è dovuto a una nuova generazione di autori che in prima persona vive una situazione di precarietà lavorativa (e non solo) e quindi, anche se parla di lavori o situazioni diverse dalla propria, lo fa con uno sguardo consapevole e interno, non fermandosi insomma alla superficie dei fenomeni, e ai soliti cliché. Mi ha colpito molto un film di finzione, ma dal linguaggio documentaristico, tra le produzioni di Biennale College a Venezia quest’anno (e che sarebbe bello poter proporre anche qui a Vicenza): Lesson of Love di Chiara Campara, un romanzo di formazione di un giovane allevatore che cerca di cambiare impiego (e quindi vita) trasferendosi in città per lavorare come operaio edile. Il motore del desiderio di cambiamento è l’infatuazione per una ragazza che lavora in un club. Mi ha colpito lo stile asciutto e privo della classica retorica da film “troppo italiano”, citando Boris, che tra l’altro è una serie cult che non ha bisogno di presentazioni, sempre sul lavoro. Arrivando a Brizé, che trovo uno dei massimi registi europei viventi, i cui film scandagliano in profondità la società contemporanea, abbiamo proposto la sua legge del mercato proprio nella prima edizione del nostro festival nel 2016. Sia La legge del mercato che il più recente In guerra sono magistralmente incarnati da Vincent Lindon, che nei due film ha il ruolo di un uomo di mezz’età che perde il lavoro, ma i due personaggi sono abbastanza diversi nell’indole: disilluso e rassegnato il protagonista del primo, quanto combattivo fino all’estremo quello del secondo. In effetti il carattere dei protagonisti si riflette anche nello stile dei due film. Il primo è rigoroso, scarno ed ellittico, mentre il secondo è caotico, sfaccettato, con un ampio utilizzo della camera a mano e del linguaggio televisivo. Inoltre il protagonista, al contrario del precedente film, è sì “in guerra”, ma si sente parte di una comunità.

Di Brizé e di altri importanti autori che ci hanno regalato con i loro film uno sguardo originale sulla società e sul lavoro come i fratelli Dardenne e Ken Loach, parleremo in apertura del festival presentando il tuo libro “La dissolvenza del lavoro. Crisi e disoccupazione attraverso il cinema”, edito da Ediesse. Questo incontro si pone in continuità con la conferenza dello scorso anno 2008-2018 Rappresentazioni del lavoro nell’audiovisivo in un decennio di crisi durante la quale, attraverso gli interventi di diversi professionisti, abbiamo cercato di delineare i nuovi scenari del lavoro nell’audiovisivo in un decennio particolare come quello appena trascorso, caratterizzato dalla crisi economica da un lato, ma anche da una (ri)nascita della sperimentazione di linguaggio nel cinema documentario e di finzione, anche attraverso il riutilizzo creativo dell’archivio, e nella serialità.

D. Giusto una curiosità: com’è organizzare il festival? Quali sono le soddisfazioni e quali le difficoltà?

R. È un lavoro molto complesso e lungo. La principale difficoltà è il reperimento delle risorse finanziarie, soprattutto in una Regione meno attenta di altre alla promozione della cultura cinematografica. Negli anni comunque abbiamo consolidato una rete di partner del territorio che ci dà anche un supporto economico, ma soprattutto sono fondamentali i bandi culturali lanciati da fondazioni bancarie come, nel nostro caso, la Cariverona. L’altra difficoltà è la promozione, che avrebbe bisogno di investimenti che al momento sono fuori portata per noi, ma anche su questo aspetto ogni anno riusciamo a crescere. È anche una questione di credibilità che ci si costruisce nel tempo, sia presso il pubblico locale e generalista sia presso gli addetti ai lavori. Sicuramente è una grande soddisfazione guardarsi alle spalle e misurare una crescita, dalla prima alla quarta edizione, in termini di qualità e quantità della programmazione (quest’anno inauguriamo anche un evento Industry, chiamato “Work in Progress” dedicato ai progetti audiovisivi in fase di sviluppo sul tema del lavoro e all’incontro tra registi e produttori) e di riscontro sempre più positivo dall’esterno. Uno dei motori propulsori che ci dà la forza di continuare è la consapevolezza di offrire, anche in una città di provincia come Vicenza, dei film che altrimenti il pubblico non vedrebbe, presentati dagli stessi autori. Infine proprio il legame che si crea nei giorni del festival con i registi e gli altri ospiti è qualcosa di prezioso sia a livello umano che professionale.

Dunque siete tutti invitati a Vicenza al Cinema Odeon, a Zerogloss, alla Bottega Faustino dall’1 al 5 ottobre prossimi e a consultare il programma sul nostro sito www.workingtitlefilmfestival.it. E a seguire queste pagine web che sono media partner della rassegna.