A ritmo di tip tap davanti a Hitler. Dal racconto di Arthur Miller una “performance” alla Festa
Passato alla Festa del Cinema di Roma in anteprima mondiale, “The Performance” di Shira Piven (col fratello Jeremy) che porta sullo schermo un racconto del grande drammaturgo Arthur Miller (pubblicato sul New Yorker). Storia di un ballerino di tip tap ebreo nella Berlino del ‘37. Il film non convince ma invoglia a leggere…
La tradizione di film a passo di danza, da Fred Astaire fino ai musical più moderni o ai cult intramontabili come Billy Elliot, impone solo una regola fondamentale: delle belle sequenze di ballo (ci perdonerete il gioco di parole).
È questo forse invece il vulnus più grande di The Performance, film di Shira Piven passato alla Festa del Cinema di Roma. Storia di un ballerino ebreo che accetta un’invitante offerta da Berlino, illudendosi di non essere scoperto.
Tolta infatti una promettente sequenza iniziale per presentarci il personaggio e la sua piccola compagnia (con lui altri tre membri), il film non riesce mai a trasmetterci l’energia di questo Nižinsky d’oltreoceano.
Fonte della storia è un racconto del grande drammaturgo Arthur Miller, in origine uscito sul New Yorker e poi pubblicato in raccolta in tempi più recenti. Ad adattarlo sullo schermo è stata la regista Shira Piven con il cosceneggiatore Josh Salzberg.
La performance che dà il titolo a tutto sarebbe quella che il nostro protagonista, Harold Markovicz (diventato May per nascondere l’origine ebraica), deve svolgere a Berlino. Non sa per chi, non sa come, sa solo che in ballo ci sono moltissimi soldi.
Il film rende tutto molto scolastico, non riesce a costruire la tensione. Anche il suo grande colpo di scena, l’apparizione in teatro nientemeno che un ignaro Hitler tra il pubblico di gerarchi, non colpisce come vorrebbe.
Le dinamiche tra i quattro membri della compagnia sono molto prevedibili, mentre di scarsa efficacia è la scelta dell’attore principale Jeremy Piven, fratello della regista.
The Performance sceglie di non approfondire né il nonvisto, sicuramente invece molto interessante, della Berlino del 1937. Né di concentrarsi su quella particolare forza collante che solo i membri di una compagnia sanno costruire. Anche nelle contraddizioni atroci dei suoi personaggi sembra sorvolare.
Intuizione vincente è, invece, la scelta di inserire brevi riprese d’epoca e non, in Super8. Utilissime e d’impatto nel ristabilire l’atmosfera quotidiana del periodo. La regista però finisce per civettare troppo anche con questo mezzo e ne abusa, scolorendone il fascino.
Inesplorata è anche la potenza trasgressiva della danza in opposizione all’oppressione del totalitarismo nazista. Solo nel finale prova a riscattarla, mostrandoci l’America degli anni ‘40, dove è un afroamericano a guadagnarsi da vivere col tip-tap.
Dagli adattamenti però si ricava sempre qualcosa, ci danno una seconda chance. E se The Performance può non aver convinto, senz’altro è un invito caloroso a provare a recuperare questo piccolo racconto di un grande autore del Novecento.
Tobia Cimini
Perditempo professionista. Spende il novanta percento del suo tempo leggendo, vedendo un film o ascoltando Bruce Springsteen. Nel restante dieci, dorme.
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