Addio Alessandro D’Alatri. Tv, cinema, pubblicità, teatro per un regista al di là dei pregiudizi

È morto il 3 maggio, a 68 anni, Alessandro D’Alatri. Televisione, pubblicità, cinema (da entrambi i lati della macchina da presa), una carriera fatta di bonaria pragmaticità, senza pregiudizi sul mezzo. Esordì con De Sica ne “Il giardno dei Finzi-Contini” (da Bassani). Tanti premi e una popolarità senza mai troppi riflettori…

Era abitudine per i movimenti artistici di qualche decennio fa scegliere le critiche più violente e farne il proprio nome, la propria bandiera. Potremmo fare qualcosa di simile con Alessandro D’Alatri, morto il 3 maggio a 68 anni, che ha spaziato in tutti i campi in cui si poteva dirigere una cinepresa, dal cinema alla pubblicità.

Sceglieremmo allora «incontinenza visiva», che ci dà subito l’idea di qualcosa che trasborda, in senso figurato ma non solo. Il merito andrà tutto a Maurizio Lupi, che nel 2017 usò l’espressione per lamentarsi in Parlamento del bacio omosessuale tra due donne andato in onda su Rai1, in prima serata, ne I bastardi di Pizzofalcone, una delle fiction di maggior successo dirette da D’Alatri, dai romanzi di Maurizio De Giovanni.

Andare oltre il limite prestabilito, che per qualcuno è un terribile pericolo, ma per altri è solo il modo giusto per allargare gli orizzonti. Qualche anno dopo D’Alatri dirigerà Un professore con un nuovo bacio omosessuale, stavolta fra due uomini, sempre in prima serata su Rai1. Lupi, in quel caso, non è pervenuto. Una vittoria silenziosa. O meglio, “in punta di piedi”, per giocare con il titolo di un’altra delle sue fiction.

Andare oltre i confini stabiliti non va inteso solo nel senso che difficilmente possiamo trovare inappropriato. Anche il mondo del cinema che più ci è affine traccia le sue colonne d’Ercole. La televisione è uno scoglio su cui ci si è scontrati a lungo ma che in qualche modo si è assimilato. La pubblicità molto meno. E D’Alatri ha dato un enorme contributo in tutti e due i sensi, vincendo anche dei premi.

Per uno che al cinema era arrivato dalla porta più riverita, quella degli autori, non è un salto da poco. Basti dire che tra i suoi primi ruoli ci fu la parte di Lino Capolicchio da giovane, ne Il giardino dei Finzi-Contini di De Sica (nella foto) dal capolavoro di Giorgio Bassani, che valse al regista il suo quarto Oscar. Ma recitò anche per Visconti, Pietrangeli, Strehler.

Dietro la macchina da presa per un film, dopo anni di pubblicità, riuscì a trovarcisi nel 1991, per Americano rosso, con cui vincerà il David come miglior regista esordiente. Per il film successivo, Senza pelle, è a Cannes, selezionato nella Quinzaine; mentre il suo terzo lavoro, I giardini dell’Eden, è in concorso a Venezia, nell’anno della (contestata) vittoria di Gianni Amelio.

Al cinema adattò con Sul mare il romanzo quasi omonimo (In bilico sul mare) di Anna Pavignano, storica compagna di Troisi, apparsa recentemente in Laggiù qualcuno mi ama di Mario Martone. Ma agli adattamenti, o anche commistioni se preferiamo, si dedicò molto anche in teatro, dirigendo nel 2007 Diatriba d’amore contro un uomo seduto da García Márquez e Scene da un matrimonio da Bergman.

Poi le fiction, terreno di grande successo popolare, che aveva già iniziato ad assaporare con alcuni film, come Casomai e La febbre (sceneggiato da Starnone). Ma sulla macchina del successo D’Alatri ha viaggiato sempre sul sedile del passeggero, motivo per cui è ancora più giusto oggi, nel momento della scomparsa, ricordarne il lavoro. 

Qualche anno fa diede, in un’intervista a Vanity Fair, una delle definizioni più oneste di quello che è (almeno dovrebbe essere), un regista: «sono il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarmene dal set». Questo è stato Alessandro D’Alatri, un regista pragmatico, incontinente ma nel miglior senso del termine.