Al cuore della persecuzione jenitsch. Giorgio Diritti porta la memoria al cinema

In sala dal 9 novembre (per 01 Distribution) “Lubo” di Giorgio Diritti, tratto da “Il seminatore” di Mario Cavatore. Un film che sceglie con coraggio di raccontare la storia del genocidio jenitsch concentrandosi sulla storia della ricerca di un padre, ma che perde di forza non riuscendo a far coesistere le sue due anime. Presentato a Venezia 80 tra i sei film italiani in concorso …

 

“Gli zingari sono sempre stati un problema”. Si apre così Il seminatore di Mario Cavatore, romanzo di Einaudi a cui ha attinto Giorgio Diritti per il suo nuovo film. Lubo è passato a Venezia 80 come l’ultimo dei sei italiani presentati in concorso e affronta una pagina nera e rimossa della storia del Novecento, quella del genocidio jenisch, i rom bianchi, nella civilissima Svizzera, avvenuto a partire degli anni ’20.

Il titolo è il nome del suo protagonista, Lubo Moser, a cui presta corpo e voce una delle icone pop del cinema europeo più recente, il tedesco Franz Rogowski. Diritti apre il suo film con una lunga sequenza esemplare degli spettacoli con cui i piccoli nuclei di girovaghi si guadagnavano da vivere. È una scena diretta con sguardo quasi ammaliato, ma rimarrà l’unico scampolo di serenità assoluta di tutto il film.

Di lì a poco la situazione precipita: Lubo è chiamato alle armi (i venti di guerra incombono, siamo nel 1939), perde contatto con la famiglia. Scoprirà poi che la polizia ha ucciso sua moglie e sequestrato i suoi figli. Era questa la pratica vile con cui si consumava il genocidio degli jenitsch: sequestrare i figli e riassegnarli a famiglie svizzere, facendogli perdere ogni traccia della loro cultura. Oltre che, nel peggiore dei casi, sfruttati come mano d’opera rasente lo schiavismo nelle fattorie di montagna.

È la svolta fondamentale del film, il momento in cui Lubo deve necessariamente cambiare struttura. Potrebbe sfociare in una storia di vendetta o nel resoconto di una ricerca disperata. In parte, diventa entrambe le cose. Il suo protagonista uccide un contrabbandiere e ne ruba l’identità, inizia a muoversi per ritrovare i suoi figli. Ma il film si incammina verso un lungo troncone che sembra quasi smarrire il suo prologo.

La parte centrale, ossia la più ampia nelle tre ore totali, ci mostra la nuova vita del personaggio, quasi come fosse un agente sotto copertura, pur senza i vezzi della spy story. Lo vediamo girovagare per anni nei vari cantoni, sedurre le donne borghesi che incontra. Dovrebbe esser questa la sua resistenza, “seminare” bambini jenisch attraverso le sue relazioni, in un paese che voleva eliminare quel popolo. Ma è un aspetto che il film sfiora appena.

I nodi iniziano ad arrivare al pettine, lentamente però, perdendo un buon elemento di tensione narrativa che avrebbe potuto rendere il complesso del film più scorrevole. Gli stravolgimenti nella trama non si traducono mai in un ritmo più serrato e il risultato è che la coda risulta vagamente mal collegata al grosso del film.

Lubo si chiude quindi con la collaborazione del commissario di polizia, vecchio commilitone dei tempi dell’esercito, che incarna l’archetipo dell’uomo di stato integerrimo ma etico. Tutto l’epilogo è una presa di coscienza generale, scandita a tal punto da sembrare quasi retorica.

Non è la prima volta che l’orribile vicenda del genocidio jenitsch sbarca a Venezia. Già la coraggiosa Valentina Pedicini, prmaturamente scomparsa, aveva fatto luce su questa terribile pagina di storia nel 2017, con il suo unico film di finzione, Dove cadono le ombre. Pedicini aveva creato un thriller doloroso e compatto, molto efficace anche nella sua parte storica.

Nel film di Diritti invece è come se esistessero due anime. La prima storica potremmo dire, legata alla volontà di far luce su una vicenda orribile di cui si sa troppo poco. La seconda invece narrativa, in cui anche la macchina da presa sembra cadere nel furto d’identità e segue il suo protagonista dimenticando quasi le sue radici.

Due anime che si risolvono in un’emulsione più che in una mescolanza. Ma se pure Lubo non riesce a chiudere il cerchio che aveva cominciato, va riconosciuto anche a questo film la scelta del suo soggetto e la solidità del proposito. Una virtù rara, anche e soprattutto in questa Venezia 80 e in particolar modo dalla pur nutrita scuderia italiana.