Belli, giovani e cannibali. Guadagnino arriva in sala col Leone d’argento “Bones and All”

Arriva in sala il 23 novembre (conVision Distribution) “Bones and All” di Luca Guadagnino, premiato a Venezia col Leone d’argento alla regia. Dopo il letterario “Chiamami col tuo nome“,  ancora una volta un film da un romanzo e ancora una volta con Timothée Chalamet. Storia di due ragazzi innamorati e cannibali. Un film che sfida i generi e si candida a essere il Titane di Venezia…

Origliare i commenti di chi ci è affianco in sala, prima o dopo un film, è uno di quei vizi che chi vuol parlare di cinema dovrebbe coltivare. Si cava fuori sempre qualcosa, dalle conversazioni altrui; e al cinema in particolare molto spesso finiamo per trovare degli ottimi spunti. Forse anche per questo la sala rimarrà sempre un insostituibile alleato per chi ama vedere e riflettere sui film.

Diciamo così non tanto per perderci in chiacchiere sulla bellezza appassita delle sale, ma perché per parlare di Bones and All, il film di Luca Guadagnino, primo dei cinque titoli italiani in corsa per il Leone d’oro, ispirato al romanzo Fino all’osso di Camille DeAngelis (in Italia edito, a suo tempo, da Panini), una frase ascoltata di sfuggita entrando in sala ci è sembrata particolarmente significativa. Più che una frase, una domanda: «Ma è un horror?». E se lo è, perché non ci terrorizza ma anzi ci intenerisce?

La risposta sta tutta nella postura che Guadagnino ha scelto per raccontare la storia. In Bones and All l’elemento che dovrebbe far precipitare il film oltre il recinto della moralità, cioè il cannibalismo, diviene una semplice condizione dei personaggi, come potrebbe esserlo una patologia. Anzi, sembra essere pura genetica, mania dei genitori che la trasferiscono ai figli contro la loro volontà.

Ciascuno ha dovuto imparare a farci i conti da sé. Inventarsi un alfabeto di regole per imbrigliare l’irrazionale bisogno di sangue, gestire le conseguenze che il cannibalismo porta con sé, su tutte l’omicidio. «Questa cosa la risolvi solo mangiando, ammazzandoti o rinchiudendoti in un ospedale psichiatrico», spiega a un certo punto uno sconsolato Lee, interpretato da un sempre più cool Timothée Chalamet, tornato a ricomporre il sodalizio vincente con Guadagnino dopo il successo di Chiamami col tuo nome.

Lo dice a Maren, interpretata da una brava Taylor Russell (macchiata di vitiligine in volto), ben lanciata (ma con agguerrite contendenti) per la stagione dei premi che è in procinto di iniziare. Sono loro due i protagonisti, amanti, in un film che sembra fatto apposta per prendere un genere e affiancargli qualche parola che lo destrutturi: road movie sbilenco, horror d’amore, coming of age macabro, love story insanguinata.

A completare il cast c’è un irriconoscibile Michael Stuhlbarg, che gli amanti di Guadagnino ricordavano certamente per il suo monologo finale rivolto a Elio proprio in Chiamami col tuo nome, e che invece qui diventa un irriconoscibile e minaccioso cannibale che dà l’idea di non voler rispettare la regola più sacra di tutte: non si mangiano altri “mangiatori”. Così come il sempre bravo Mark Rylance, nei panni del più indecifrabile della tribù di cannibali incontrati lungo la strada, che conclude la sua parabola rivelandosi il villain della storia.

Il film rimane più di tutto, comunque, una storia d’amore tra due ragazzi, di come se ne sono viste a migliaia, nei cinema e, per fortuna, anche nella vita reale. Guadagnino si muove proprio su questo filo, costruendo passo passo una trama romantica in cui capita, quasi in secondo piano, che ci si debba sfamare mangiando qualcuno. Cerca la tenerezza nella più feroce e archetipica  delle pratiche umane e riesce a scovarla anche in mezzo al sangue.

Ha addirittura un che di freudiano, Bones and All. Il buon vecchio binomio tra Eros e Thanatos fa capolino in più occasioni, ricordandoci che tra un bacio e un morso il confine è labile. Allo stesso modo il viaggio dei due protagonisti, più letteralmente per Maren rispetto a Lee, non è altro che il tentativo ineludibile di far pace con l’eredità dei propri genitori; e dunque, irrimediabilmente, con se stessi.

Un tracciato, questo della fuga senza meta da chi ci ha preceduto, che è poi il contraltare della regia di Guadagnino stesso. Il film insegue un filone, il tracciato di chi negli ultimi anni ha provato ad aprirsi la porta di una contemporaneità a suon di stile (o presunto tale), con vari gradi di successi e insuccessi. È il cinema alla Titane, che tante divisioni ha portato nella cinefilia. Ne porterà anche a Venezia, ma non è da escludere che, proprio com’è stato per il film di Julia Ducournau, possa uscire dal festival come vincitore.