Il calcio bambino, un libro (di Arcopinto) e un doc (del Collettivo Mina), ora in sala

Il libro è “Controvento” di Gianluca Arcopinto. E il doc è “Scuola calcio” del Collettivo Mina che da lunedì 10 dicembre inizia il suo tour distributivo con Pablo (si parte dal Greenwich di Roma, ore 17.30). Qui parliamo del libro, un viaggio nel calcio dei piccoli, la gioia di una vittoria, il fastidio per una sconfitta. Che poi passa con una merendina al bar nella strada fra il campo e casa. O che magari passa, concendendo qualcosa alla retorica sportiva, quando i bambini della Fortitudo sono accolti a Napoli con una grande festa popolare …

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L’affermazione più banale stavolta è anche la più vera: il calcio è una grande metafora. Completa. Al punto, forse, da essere una lente più che una metafora. Qualsiasi risvolto culturale, qualsiasi tendenza, qualsiasi conflitto lo si può leggere osservando una partita, provando a “leggere” cosa avviene sugli spalti.

Imparando a spulciare fra i bilanci dei club o semplicemente provando a decifrare il linguaggio dei calciatori, quando sono intervistati alla fine di un incontro. Lo sanno tutti, è scontato. Tutto quel che avviene “fuori” insomma lo si può leggere entrando nel mondo degli stadi.

Anche se – va detto – non tutti si sono accorti del contrario: e che talvolta quel che accade nel calcio serve a precedere, a testare quel che avverrà “fuori”. Come per esempio negli ipercontrolli all’ingresso della curva romana – capaci di superare qualsiasi immaginazione distopica alla Philip Dick– che sembrano indicare la strada a chi si pone l’obbiettivo del controllo sociale tout court.
Ma questo è un altro discorso.

Resta il calcio e le sue metafore. Le sue troppe metafore. Che qualche volta fanno perdere di vista il soggetto vero: il gioco. Quel gioco che muove le passioni di milioni di persone.

E da un eccesso di “metaforizzazione” – neologismo orrendo ma serve a capire – nasce anche il piccolo libro Controvento di Gianluca Arcopinto (edizioni Marotta & Cafiero). Noto produttore cinematografico, padre e – sfogliando le pagine si saprà – in gioventù mediocrissimo giocatore – e oggi altrettanto mediocre giocatore – oltre che arbitro semidilettante, arrivato fino alla serie D. Ora anche accompagnatore di una squadra di giovanissimi.

Tutto nasce, si diceva, da un divertentissimo articolo che Arcopinto aveva scritto, cinque anni fa, raccontando un pomeriggio – a lui che di pomeriggi semi-liberi ne ha tanti, visto il suo lavoro di “produttore indipendente” (autodefinizione, ndr) – alla scuola calcio del figlio, alla Fortitudo. Un nome che nella capitale significa molto. È qui, è con questa piccola società, che ha cominciato a tirare i primi calci, proprio lui, Totti.

Quel testo, secondo Arcopinto si sarebbe dovuto intitolare semplicemente: “Scuola calcio”. Il giornale che lo pubblica invece sceglie di presentarlo ai lettori con questo titolo: “Il cinema italiano che sa di regime”. Arcopinto non dice di che testata si tratti ma basta fare una semplice ricerca in rete per scoprire che si parla del Fatto Quotidiano (e chi altri sennò?). Scelta redazionale dettata dal fatto che in un passaggio, il produttore racconta la conversazione di altri genitori, anzi altre mamme presenti agli allenamenti, che, in piena epoca berlusconiana, commentano il film dell’amica bulgara dell’allora premier. Tanto basta al Fatto per sparare il titolo sul “regime” e nascondere tutto il resto.

Ed invece ad Arcopinto interessava e interessa soprattutto il resto. Il calcio. Ed è così che ha ripreso quel testo, lo ha arricchito, fino a farlo diventare un libro (distribuito in Creative Commons, cosa comunque da sottolineare).

Il calcio, allora. Quello dei grandi, che lui ha cominciato a vedere nel giugno del ’68, andando a Napoli, col padre, per le semifinali degli europei, ma soprattutto quello dei piccoli. Dei ragazzi, dei bambini. Che conosce bene grazie al suo “ruolo” di accompagnatore, ma anche di confidente, di padre.

Un universo – sia chiaro – che non è incontaminato. Che prevede la violenza, l’enorme violenza verbale dei genitori che assistono alle partite dei piccoli. Che si sentono tutti allenatori, che urlano suggerimenti tattici ai propri figli e ai figli degli altri, fino ad arrivare all’invito agli interventi duri.

Contaminato – anche se forse non è l’espressione giusta – da quell’alone di malinconia che sembra pervadere tanti protagonisti. Nel libro c’è un’intera sequenza di racconti in prima persona dei bambini, quasi tutti dodicenni. Dove qua e là traspare la voglia di emergere – anche se compensata dalla paura di lasciare casa  – ma dove soprattutto emerge un dato: “È più bello giocare al campetto dell’oratorio”. Senza limiti di età, grandi e piccoli insieme, senza magliette, senza arbitri. Senza obblighi.

E c’è anche la malinconia – mai dichiarata ma leggibile – dell’allenatore Bruno. Un maestro, un vero maestro per questi piccoli, che deve subire le ingerenze dei genitori, che deve fare i conti con le assurde aspirazioni dei papà e delle mamme (ed è anche autore di una splendida poesia in romanesco, già diventata cult: “A papà, te lo devi mette in testa, nun so’ ‘n campione / io so’ un ragazzino che gioca a pallone / te pare poco st’emozione?… ”); ma che sotto-sotto considera la sua attività un ripiego. Avrebbe voluto allenare ad altri livelli.

Ma il calcio è questo. La gioia di una vittoria, il fastidio per una sconfitta. Che poi passa con una merendina al bar nella strada fra il campo e casa. O che magari passa, concendendo qualcosa alla retorica sportiva, quando i bambini della Fortitudo sono accolti a Napoli con una grande festa popolare. Proprio nei giorni caldissimi e drammatici che precedettero il confronto fra la squadra della capitale e quella partenopea in serie A.

Ecco il calcio, dunque, la sua ragion d’essere, la ragione del suo successo. Se ci si pensa, lo stesso calcio praticato dall’Aiax di Cruijff negli anni ’70. Sì, perché Arcopinto si concede anche un finale di (semi)attualità, con un’incursione nello sport dei grandi. Svelando che lui era appassionato di quella squadra bianco-rossa di Amsterdam, capace di “rivoluzionare ruoli, tattiche, preparazioni fisiche, di essere squadra”.
Questo dovrebbe essere il calcio, scrive e fa capire Arcopinto. Ma poi aggiunge: “Al di là dei confini ristretti del tifo”.

Una frase, otto parole in tutto che però stonano assai col resto del libro. O almeno così sembra a chi scrive. Otto parole che rivelano una conoscenza dei “tifosi” molto approssimativa, che sembra ricavata quasi solo dai giornali mainstream. Quelli appunto che stravolgono i titoli ai suoi scritti. Quelli che parlano di ultrà e di hooligan come se fossero un universo indistinto. Ma la verità è molto più semplice: si può arrivare a “quel calcio”, al calcio di Arcopinto, anche percorrendo un’altra strada. Anche tifando, sostenendo, innamorandosi della propria squadra e dei propri colori. Anche senza che il proprio figlio abbia frequentato una scuola calcio.