Come il cinema ha imparato a leggere prima di parlare
Nella 35esima edizione delle Giornate del cinema muto di Pordenone, una lunga carrellata di pellicole ispirate alla letteratura. Da Shakespeare, ovviamente, con una ancor cicciottella Francesca Bertini, poi da Dumas l’opera fiume di Henri Fescourt e da Zola il film con cui si rovinò Jean Renoir…
All’inizio il cinema era tutto un treno che entrava in stazione, operai che uscivano da una fabbrica, sfilate e cerimonie pubbliche e visite turistiche, ma prima di imparare a parlare, quella che verrà chiamata la settima arte, ha imparato a leggere.
E l’ha imparato così bene che nella 35a. edizione delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone (1- 8 ottobre 2016) una buona metà dei film presentati s’ispira a testi letterari, prima di tutto i drammi e le tragedie di William Shakespeare, come dimostrano le tre miniriduzioni di Re Lear, Il mercante di Venezia e Romeo e Giulietta, di una ventina di minuti ognuna, realizzate dalla Film d’Arte Italiana tra il 1910 e il 1912, con un’ancora cicciotella Francesca Bertini, ben lontana dai suoi anni gloriosi di diva assoluta.
È vero che in quei primi anni del muto, quelli che noi chiamiamo lungometraggi non andavano oltre l’ora di proiezione, con qualche lodevole eccezione (Cabiria in Italia, Nascita di una nazione negli USA), per cui erano più adatti al grande schermo i racconti e le novelle più che i romanzi, sopratutto a Hollywood dove spopolavano i settimanali come Saturday Evening Post o American Weekly, pieni com’erano di operine letterarie scritte da grandi nomi come Jack London, ma più spesso da mestieranti, anche di valore, come Peter Bernard Kyne (che ispirò buona parte dei western dei primi 40 anni del genere).
Andavano di moda anche le commedie e i drammi da boulevard come il delizioso Il giardino dell’Eden, firmato da un Lewis Milestone che nel 1928 (nella foto del Museum of Modern Art, New York), due anni prima del suo capolavoro Ad Ovest niente di nuovo dal romanzo pacifista di Erich Maria Remarque, gioca con perizia ad essere un succedaneo di Ernst Lubitsch.
Ma è sopratutto il cinema francese ad acquisire titoli di nobiltà ispirandosi ai capolavori della propria letteratura, sia di quella di genere popolare come il monumentale Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas
padre (quattr’ore di fila dirette da Henri Fescourt nel 1929), sia di quel filone del naturalismo sociale, come la Nana di Emile Zola (nella foto in prima, della Cineteca di Bologna), che dirigerà Jean Renoir nel 1926, rovinandosi economicamente.
Ambedue sono stati gli eventi delle Giornate 2016, il primo nel restauro del 2006 per il canale culturale franco-tedesco Arté, usando la copia in bianco e nero francese, conservata in quella miniera de tesori del muto che è
la Gosfilmofond di Mosca, e combinandola con la copia nitrato commerciale, salvata dalla Cineteca tedesca (Deutsche Stiftung Kinemathek), il cui metraggio corrisponde alle 15 bobine originali.
Il film fu l’ultimo bagliore del crepuscolo del cinema francese, assieme al Napoleone di Abel Gance, perché l’arrivo del sonoro negli anni seguenti, condannerà all’oblio migliaia e migliaia di film realizzati nei tre
decenni precedenti, impropriamente definito muto perché, specialmente nell’ultimo periodo, era capace di parlare a un pubblico che sapeva ascoltarlo.
Nanà, invece, è il primo tentativo di Renoir di autoprodursi e, come nel 1939 con La règle du jeu e nel 1952/4 con La carrozza d’oro, sarà un fallimento economico totale, anche se oggi quei tre titoli vengono considerati i suoi massimi capolavori.
A Pordenone si è vista la versione integrale, che nessuno aveva mai visto dopo i tagli fatti dallo stesso Renoir dopo la prima proiezione del 27 aprile del 1926 al Moulin Rouge, grazie al lavoro fatto nel 2002 dal benemerito
Laboratorio dell’Immagine Ritrovata di Bologna, per incarico dello Studio Canal francese e della rete televisiva Arté.
Vedere questa Nanà, a cui dà corpo e movenze l’allora moglie di Renoir, Catherine Hessling, con la sorprendente stilizzazione del gioco della protagonista e della tedesca Valeska Gert (nella vita reale, moglie del
compositore de L’Opera da quattro soldi, Kurt Weill) contrapposta a quello realista e misurato del resto del cast (da Werner Krauss a Jean Angelo), è scoprire un capolavoro assoluto del cinema.
Sullo stesso testo si è potuto vedere a Pordenone una versione anteriore firmata dall’italiano Camillo De Riso nel 1917 (che aveva diretto un’ altra tre anni prima) con una poco conosciuta Tilde Kassay, più moderata delle altre dive del tempo nell’agrapparsi alle tende, maltrattata dalla censura che ne impedì la programmazione “per manifesta immoralità” e “liberata”, dopo i dovuti tagli, soltanto nel 1919, a guerra terminata e
col titolo di Una donna funesta.
Fortuna è stata che, come nel caso di Metropolis, il pubblico argentino aveva potuto vedere la versione originale in tre episodi, ognuno con la durata di un vero e propio lungometraggio, immediatamente dopo la prima italiana del 1917.
Ma, come nel caso del capolavoro di Fritz Lang, anche questa copia in nitratto fu distrutta dopo il trasferimento in un positivo ridotto a un terzo del metraggio originale (72 minuti) e conservato nella maggior collezione
privata argentina (quella di Manuel Peña Rodriguez) che la legò alla Cineteca del Museo del Cine Pablo C. Ducros Hicken, che ha proceduto al recupero e restauro di questo film di cui si era perduta ogni traccia nel
resto del mondo.
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