Dal riformatorio all’altare. La (struggente) passione di Daniel nuovo messia contro i pregiudizi

In sala dal 6 maggio (per Wanted Cinema) “Corpus Christi” pluripremiato flm del polacco Jan Komasa. Il percorso spirituale e profondamente umano di un ragazzo di riformatorio che, non potendo entrare in seminario a causa della sua fedina penale, si finge prete. Portando in un paesino sperduto la sua misericordia: demolire i pregiudizi che avvelenano la piccola comunità, come nel resto del mondo. Un film duro e scarno che incrocia terra e cielo. Da non perdere …

Nella cattolicissima Polonia pare che siano molto frequenti i casi di uomini che si fingono preti. Praticamente un fenomeno sociale. Sul motivo per cui qualcuno decide di impersonare un sacerdote la spinta economica truffaldina è la più accreditata ma non mancano motivazioni anche legate all’acquisizione di rispetto, di uno status.

Tuttavia non è così facile calarsi nella parte senza una sorta di “vocazione” e di una forma di spiritualità. Non si può escludere che una delle ragioni possa trovarsi anche nella necessità di sentirsi migliori di quello che si è in realtà… o forse i motivi sono altri ancora e completamente diversi.

È questo fenomeno e la molteplicità dei suoi motivi che ha prima incuriosito e poi spinto Mateusz Pacewicz a scrivere la sceneggiatura di Corpus Christi, per la regia di Jan Komasa.

Il film che è passato a Venezia nel 2019 alle Giornate degli Autori con ampi consensi e il premio per l’inclusione Edipo Re, nonché nominato agli Oscar 2020 e premiato agli European Film Awards, oggi è nelle sale italiane grazie alla distribuzione Wanted Cinema. Jan Komasa, tra l’altro, è il non ancora quarantenne regista polacco anche del successivo apprezzato The hater (2020).

Daniel (uno straordinario Bartosz Bielenia) è un giovane rinchiuso in un riformatorio dove la vita si svolge secondo i noti rituali della regola carceraria tra bullismi, sopraffazioni tra reclusi e disciplina imposta con relativi tempi e metodi.

Ma se la “riabilitazione” passa attraverso il laboratorio di falegnameria, con lo stesso intento Padre Tomasz gestisce la parte religiosa alla quale Daniel partecipa convintamente al punto di desiderare di poter entrare in seminario e diventare a sua volta prete. Padre Tomasz, ovviamente, non lascia speranze a causa della fedina penale ostativa.

Queste le premesse, ma è con l’uscita dal carcere che Daniel dà corpo al suo desiderio, fingendosi prete in un paesino sperduto e gravato da un recente lutto cumulativo al quale solo la fede e la partecipazione ai riti religiosi sembrano dare sollievo.

In questo film duro e scarno che incrocia terra e cielo il genere umano si mostra in tutta la propria “umanità”. Il raggiungimento della redenzione è un’aspirazione, come da precetti che sembra o desidera osservare, ma le meschinità, l’ipocrisia e i rancori della comunità sono attivi, solo ricoperti da una sottile patina di devozione.

Anche Daniel è un uomo e la sua “interpretazione” del ruolo che si è assegnato è ferocemente terrena. Per stima adotta il nome del cappellano del carcere e ne replica i metodi così poco formali, che sovvertono il rituale della liturgia e il rapporto coi parrocchiani abituati a ben diverse forme. Nel carcere come nel paese. E come accade spesso, nella vita anche nel film niente è come sembra…tranne Daniel. Finge unicamente di essere stato consacrato nel ruolo con tutti i crismi previsti ma la sua fede è profonda e concreta. Anche quando balla la peggior techno, quando pippa cocaina o beve come una spugna. O quando festeggia l’uscita dal carcere con una tavolata che sembra un’Ultima Cena caravaggesca.

La cosa che tocca profondamente, si sia credenti o meno, è l’urgenza che il finto prete sente nel dover dare sostanza al compito che si è auto-assegnato: rendere palpabili le parole. Per Daniel, fede è carità. La misericordia come un atto istintivo attraverso la quale demolire i pregiudizi.

Non c’è dogma nella sua interpretazione della religione. La sua spiritualità prescinde persino da un Dio. Daniel vuole agire, perché l’unica fede giusta risiede nell’essere nel mondo ed esserci per il mondo. Ma Daniel per fare questo (e attraverso questo) ricostruisce se stesso, trova finalmente un senso, non antitetico a quanto vissuto fino a quel momento, per riordinare i tasselli e trovare il modo di essere utile ad uno scopo, per se stesso e poi per gli altri.

In qualche modo, più per sfumature che per dati più salienti, riaffiora il ricordo di Centochiodi di Olmi. Ma anche certi passaggi di Andrej Rublëv di Andrej Tarkovskij arrivano soprattutto nella volontà di mostrare un Daniel fiducioso nelle persone e consapevole delle loro sofferenze e del fatto che la fede è la loro unica speranza. Tarkovskij fa dipingere al monaco una crocifissione i cui protagonisti sono gente comune, Daniel mostra se stesso come un uomo-Cristo crocifisso il cui torso porta i segni della sua personale Passione: i tatuaggi che raccontano della sua vita criminale. Un uomo tra gli uomini.