Frammenti di un orrore amoroso. Il nazista e l’adolescente ebrea, in un doc

In onda nel Giorno della memoria (il 27 gennaio) su Tvod (distribuito da Wanted Cinema), “Se questo è amore”, documentario della regista israeliana Maya Sarfaty, dedicato alla tragica storia d’amore (?) tra Franz Wunsch, ufficiale austriaco delle SS ed Helena Citron, una giovane ebrea prigioniera ad Auschwitz. Doveva essere un libro, poi è diventato un film dall’effetto spiazzante e pieno  pathos, giocato sul contrasto tra orrore e taglio bambinesco-artigianale, attraverso i fotomontaggi dei due protagonisti …

A metà anni Sessanta Simon Wiesenthal ed Hermann Langbein scoprono che 70 ufficiali della SS vivevano, ancora senza problemi, in Austria. E sporgono denuncia.

Alla corte di Vienna, nel 1972, solo quattro di loro subiranno un processo. E, per tragica cronaca, furono assolti tutti.
Uno di questi si chiamava Franz Wunsch, all’epoca un cinquantenne dagli occhioni azzurri gonfi di lacrime che alla giuria sembrò, senz’ombra di dubbio, “un onesto, semplice, cittadino medio”.

Per aiutarlo, la moglie dell’ex SS aveva anche spedito in Israele una lettera ad una donna ebrea per supplicarla di testimoniare in suo favore a Vienna: in Tribunale. Sapeva che era stata ad Auschwitz e che l’allora ventenne Franz, per niente tenero col resto degli umani, si era perdutamente innamorato di questa adolescente che era riuscito a sottrarre a fame, tisi e camera a gas.
Una pesca con occhi di velluto e voce da usignolo. Che irradiava luce.

Così viene descritta la bella Helena Citron da chi la ricorda tra le sopravvissute: le sue compagne di sventura, divise tra invidia e indubbia ammirazione.

Di questo amore nato ad Auschwitz racconta Se questo è amore della regista israeliana Maya Sarfaty, colpita dal racconto che la nipote di Helena, sua insegnate, le aveva fatto.

Doveva essere un libro, inizialmente. Poi, nel 2016, Maya ha optato per un corto, premiato con lo Student Academy Award, che nel 2020 ha preso forma di un inedito documentario.
Un’idea nata dal ripetuto ritaglio, ossessivo, romantico e infantile, che Franz ha fatto di una foto da lui scattata ad Helena in campo di concentramento. Una creatura dalle guance rotonde, sorridente, in tuta a righe, come tutti i condannati, ma in sconcertante contrasto con gli spettrali esseri ancora del luogo.

Post Auschwitz, replicando le stampe, Franz ritagliava solo la sua testolina e la montava su altre immagini di altre donne e in altri luoghi.
Fotomontaggi per portarla sempre con sé, al mare, nella sua casa, nei viaggi. Via dall’orrore vissuto negli spazi di Se questo è un uomo dov’era, com’è noto, finito anche Primo Levi.

Tecnica, quella del gioco del ritaglio e del fotomontaggio, che quasi tutti i bambini del mondo hanno conosciuto, forse anche ora, in era digitale, che Maya sceglie di adottare nel suo documentario, alternando fotomontaggi tridimensionali con immagini di repertorio del campo di sterminio a vere interviste. Alla pur sempre bella Helena; alla sorella che ha salvato mentre i suoi piccoli venivano gasati; alle compagne di concentramento; allo stesso Franz rilassato in giardino a casa sua nel 2003; alla sua bionda figlia sorridente che mostra un ciondolo regalato dal padre che racchiude e combacia due piccole foto ritratto: quella del giovane SS e di Helena, al posto della vera madre.

L’effetto è molto spiazzante: potenzia il pathos il contrasto tra orrore e taglio bambinesco-artigianale. Come, ad altissimo livello, succede con Notte e nebbia, documentario del 1955 di Alain Resnais dove è l’agghiacciante programmazione architettonica il motore del forte impatto emotivo.

Che da parte di Franz, con tutti gli altri spietato, sia stato vero, primo e forse unico amore, sembra indubbio.
Non violentare e far del male, consentito a chiunque, ma innamorarsi di una donna ebrea, e per di più in un campo di concentramento, era per un SS un vero rischio di condanna a morte. Salvare chi, tramite lei, chiedeva aiuto, cosa che lui fece, lo era altrettanto. Dopo la guerra inoltre continuò per anni a cercarla sperando di sposarla. In una lettera le scrive che ha parlato coi suoi genitori e che l’aspettano a braccia aperte.

Quanto ad Helena, sul dubbio del titolo, la risposta è certamente più complessa. Quello che è dato di sapere è che a difenderlo a Vienna lei c’è andata, anche senza rivolgergli uno sguardo. Però abbiamo quello che ci racconta anni dopo lei, in primo piano, perfettamente truccata, muovendo labbra e mani con lunghissime unghie laccate di un rosso fuoco. Come a ragione e buon diritto l’attuale “bambolina portoghese” attaccata dal leader di estrema destra.

“Dalla Slovacchia ci hanno portate ad Auschwitz il 25 marzo del 1942, le prime 1000 donne arrivate lì. Ci hanno costretto a spogliarci tutte nude e dopo averci depilate, ridevano e ci toccavano i seni mentre i cani abbaiavano. Poi a tutte, in buona parte ancora vergini, hanno infilato uno strumento nella vagina. C’era una vasca d’acqua dove siamo entrate che è diventata tutta rossa per il sangue…E in brevissimo tempo ci hanno trasformati tutti in animali”.

Poi una sera una Kapò per festeggiare il compleanno di un ufficiale è andata in cerca di una donna che sapesse cantare.
E toccò a lei. Fin da quando era piccola il fratello maggiore diceva che da grande l’avrebbe portata a Praga perché era un’artista nata.
E quella sera spaventata Helena cantò per gli aguzzini una canzone tedesca che cominciava così: ”Non è mai stato amore perché purtroppo non hai cuore…”. Diremmo esplicita e premonitrice.

Ammaliato dalla dolcezza di quel canto Franz le si avvicinò e le chiese cortesemente una replica. E l’amore per lei cominciò lì.
L’arte, appunto. Unica cosa al mondo che anche in un luogo o momento di soli orrori può seminare frutti e aprire un cuore.
Ultima cosa perciò cui si dovrebbe rinunciare nei periodi più bui.
Distribuito da Wanted Cinema si vedrà sulle piattaforme Tvod dal 27 gennaio Giornata della Memoria.