I contadini di Simone Massi protagonisti del Novecento. Con “Invelle” si anima la Mostra

In concorso nella sezione Orizzonti di Venezia 80, “Invelle” di Simone Massi traccia una storia animata dei contadini marchigiani dalla Prima guerra mondiale all’inurbamento sul finire degli anni ’70. Un film animato che cerca l’ampio respiro e trova nei suoi disegni il suo maggior pregio, tanto da ricevere il Premio Lizzani, assegnato dagli “esercenti coraggiosi”…

Vuol dire in nessun posto, Invelle, e bisogna riconoscere che è un titolo azzeccato. Perché la storia di chi nel Novecento ha lavorato la terra, in Italia, di solito non ha una collocazione nella nostra storia, o almeno nei discorsi che ne facciamo. Parliamo delle guerre, del fascismo, del boom e degli anni di piombo, ma su chi popolava le campagne, Resistenza a parte, spesso sorvoliamo.

Simone Massi, disegnatore tra i più talentuosi e appartati ha scelto invece con il suo primo film di animare quella parte di società. È un verbo che calza a pennello, perché Invelle, che a Venezia 80 si è guadagnato un posto nel concorso di Orizzonti, la sezione più aperta alla sperimentazione della Mostra del Cinema, è un film d’animazione.

Si affida prevalentemente al bianco e nero, complice forse il periodo che abbraccia, dalla fine della Grande Guerra all’uccisione di Moro, una parentesi di storia in cui il colore compare solo alla fine. Ma è evidente che la scelta serva anche a dramatizzare l’immagine, grazie anche al tratto scelto, molto bozzettistico.

Le suggestioni non mancano ovviamente, il richiamo a maestri che hanno fatto della vita contadina il centro di alcuni capolavori come Bernardo Bertolucci ed Ermanno Olmi sono abbastanza chiari. Pretendere che il film potesse portarsi su quegli stessi livelli sarebbe stato ingeneroso, tuttavia Invelle sembra quasi perdere il suo centro.

Massi ha strutturato il suo film con uno sviluppo contemporaneamente ciclico e consequenziale, ogni elemento si lega all’altro, pure se distanti nel tempo. E le immagini sono la forma con cui ce lo mostra, trattando lo schermo come una pagina in movimento, in cui ci si può addentrare nell’occhio di una bambina per trovarci già l’immagine del suo futuro figlio.

I nomi e le storie si mischiano a tal punto che il groviglio diventa molto complicato da sciogliere. Le coordinate storiche sono molto precise: la fine della prima guerra mondiale col ritorno a casa dei soldati e l’avvento del fascismo, poi la guerra partigiana e il boom economico, fino al rapimento Moro e alla sua uccisione. Così come è molto chiara la collocazione geografica.

Siamo nelle Marche, la terra dello stesso autore, dove vivve tutt’ora in una vecchia casa di campagna, isolata tra le colline. Ed è della sua terra anche il dialetto, il marchigiano, usato con intelligenza nel film. Un elemento fondamentale, perché era quella la lingua dei contadini, il cuore pulsante della loro cultura. Le voci a cui il regista si affida sono di altissimo profilo e si riconoscono quelle di Giovanna Marini che canta la Ninna nanna sette e venti; Ascanio Celestini che interpreta Lettera alla madre dell’anarchico Sante Caserio; Toni Servillo a cui è affidata la Mezzaluna di Federico Garcia Lorca, mentre Mimmo Cuticchio appare nei panni di se stesso, epico cantastorie col suo inconfondibile timbro vocale.

Invelle però, nel suo percorso visivo, talmente ricco da confondere persino, dimentica di omaggiare la cultura e il mondo contadino che mette al centro del suo racconto. Così, la fine di quell’epoca, con l’inurbamento progressivo e inarrestabile, perde i suoi connotati tragici che in tanti, da Pasolini in giù, hanno così efficacemente indicato.

Il film cerca comunque di tenere insieme l’attenzione storica con l’analisi sociale e la necessità di un’espressione personale   attraverso il disegno, quel suo tratto così unico che l’ha fatto conoscere e premiare anche all’estero. Un equilibrio, però, che a tratti sembra smarrire la coerenza. Ma i tentativi coraggiosi sono sempre ben accetti. Produce minimum fax media.