Il cinema dalla parte delle vittime. Addio Giuliano Montaldo tra eretici, partigiani e letteratura

È morto a Roma il 6 settembre, a 93 anni, Giuliano Montaldo, ultimo dei grandi rappresentanti di quel cinema civile che ha varcato  i confini nazionali. È scomparso proprio durante la Mostra del Cinema di Venezia, dove a suo tempo aveva portato alcuni dei suoi capolavori. Strettissimo il rapporto con la letteratura fin dal suo esordio col bersagliato (da destra e sinistra) “Tiro al piccione” da Giose Romanelli su un giovane di Salò. Nel 2014 è stato anche presidente di Venezia Classici, la giuria composta dagli studenti di cinema, ad indicare l’impegno dell’ultima parte della sua carriera verso il confronto generazionale…

 

Una propensione, quella verso il confronto generazionale, che Giuliano Montaldo aveva trovato a coronamento della sua lunghissima carriera, con il ruolo come poeta in Tutto quello che vuoi di Francesco Bruni, per cui aveva ricevuto il David di Donatello al miglior attore non protagonista nel 2018. Rimarrà il primo e unico riconoscimento per un film specifico ricevuto dall’Accademia, che ha oltretutto diretto dal 2016 al 2017, e da cui aveva ricevuto nel 2007 il premio alla carriera.

Nato a Genova, sia all’anagrafe, nel 1930, che cinematograficamente, col leggendario Achtung! Banditi!, esordio di Carlo Lizzani sulla resistenza finanziato “dal basso”, grazie ad una cooperativa di camalli e partigiani. Montaldo – anche lui partigiano – fu in quel caso solo attore, ma iniziò così ad assaporare il cinema. Continuò a farlo da aiuto, prima per lo stesso Lizzani e poi per Petri e Pontecorvo.

Dieci anni dopo, nel 1961, esordì finalmente alla regia, subito nel segno della letteratura e della polemica. Scelse infatti di trarre il suo Tiro al piccione dal romanzo omonimo di Giose Rimanelli, che raccontava la guerra partigiana dal lato di un giovane repubblichino di Salò. Le critiche furono feroci da tutti i lati.

Non aveva una passione per i soggetti facili, Montaldo. Nel 1970 il suo quarto lungo, Gott mit uns, fece infuriare il governo canadese di Pierre Trudeau, che minacciò di mandare al macero tutta le copie del film. La colpa era aver svelato un episodio grottesco della seconda guerra mondiale, dove l’esercito canadese concesse ai prigionieri tedeschi di metter su una corte marziale per due disertori.

Subito dopo arrivarono i grandi caposaldi del cinema civile che tutti ricordano. Sacco e Vanzetti, con l’indimenticabile arringa finale di Volonté, il premio a Cannes per Riccardo Cucciolla e la splendida canzone di Joan Baez, musicata da Morricone. Nel 1977 fu direttamente lo stato del Massachussets ad ammettere il valore del suo film, invitandolo a partecipare alla cerimonia di riabilitazione dei due anarchici per il suo contributo alla stessa.

Gli anarchici italiani erano due eretici uccisi per le loro idee e non stupisce che a quel film abbia fatto seguito, ancora una volta con Volonté protagonista, Giordano Bruno. È il compimento della trilogia dei tribunali: prima quello militare, poi quello giudiziario, infine quello religioso. Tutti film dove le istituzioni si rivelano fallaci e oppressive.

Tornò alla Resistenza con la letteratura, o viceversa, visto che le sue ispirazioni letterarie sono quasi sempre coincise con le storie degli anni del fascismo. Dal famosissimo romanzo di Renata Viganò trasse nel 1976 L’Agnese va a morire (nelle foto), dal racconto di Giorgio Bassani omonimo trasse invece Gli occhiali d’oro nel 1987,  infine dal romanzo di Ennio Flaiano, primo Premio Strega della storia, adattò Tempo di uccidere nel 1989.

Nel mezzo e oltre, film di diversa natura. Il kolossal didattico su Marco Polo per la televisione, l’adattamento di Dostoevskij in I demoni di San Pietroburgo, la diapositiva della crisi in quello che rimarrà il suo ultimo film di finzione, L’industriale.

A lungo direttore di Rai Cinema, il primo, Montaldo non ha quindi solo contribuito da regista e attore all’immaginario collettivo, ma anche da dentro la filiera produttiva. E, per forza di cose, mancherà in tutti i settori, pubblico compreso. È forse l’ultimo atto di chiusura di quella stagione del cinema italiano che aveva saputo muoversi oltre il Neorealismo senza dimenticarlo. A chi resta rimane il compito di tenerne vivo nella memoria l’esempio.