Il miniaturismo ad alto tasso teatrale di Wes Anderson omaggia “The New Yorker” (e la sua storia)

In sala dall’11 novembre (per Walt Disney) “The French Dispatch” il nuovo film di Wes Anderson dedicato alle glorie del “The New Yorker”. “Una lettera d’amore ai giornalisti ambientata nell’avamposto di un giornale americano in una città francese immaginaria del XX secolo”, spiega. Un film-mosaico nutrito di quel miniaturismo ad alto tasso teatrale che fa di lui un unicum nel panorama del cinema mondiale. Con cast stellare. Passato in concorso a Cannes 2021 …

Owen Wilson, Bill Murray, Tilda Swinton, Benicio Del Toro, Saoirse Ronan, Frances McDormand, Timothée Chalamet, Edward Norton, Willem Dafoe, Mathieu Amalric, Christoph Waltz, Adrien Brody, Henry Winkler, Elisabeth Moss, Léa Seidoux, Jeffrey Wright, Liev Schreiber, e so di averne dimenticato parecchi: difficile dire chi NON ha reclutato Wes Anderson, in ruoli chiave o in fulminei cameos, per il suo The French Dispatch.

Il film è un dichiarato omaggio alle “penne” e alle scelte editoriali di The New Yorker (fondato nel 1925), qui sotto le fantasiose spoglie della testata The French Dispatch of the Liberty, Kansas, Evening Sun.

Wes Anderson parla di questo suo film-mosaico, nutrito di quel miniaturismo ad alto tasso teatrale che fa di lui un unicum nel panorama del cinema mondiale, come di “una lettera d’amore ai giornalisti ambientata nell’avamposto di un giornale americano in una città francese immaginaria del XX secolo”.

È la Francia della Festa Mobile scoperta da Hemingway e Fitzgerald ma anche quella del ‘900 a noi più vicino. Il nome scherzoso della cittadina è Ennui-sur-Blasé, ma gli esterni – per poco che contino, dato che Anderson il suo universo lo crea nei teatri di posa – sono stati girati nella vera Angoulème.

Ogni capitolo del film corrisponde a una sezione del giornale, diretto da Arthur Howitzer Jr. (Bill Murray), che sulla porta ha affisso il cartello “Vietato piangere”, s’intende nella sua stanza. Howitzer è appena morto, quindi l’intero film celebra i fasti e il ricordo di un’epopea tramontata.

Owen Wilson fa reportage stravaganti sul “colore locale”, Jeffrey Wright è specializzato in “sapori e odori”, Tilda Swinton gestisce con glamour “arte e cultura”. Tra i suoi scoop c’è la storia di un pittore-rivelazione psicopatico, rinchiuso in un manicomio criminale (Benicio Del Toro) che come modella usa la sua carceriera Léa Seidoux. Adrien Brody incarna un astuto mercante d’arte descritto dal vero New Yorker nell’articolo The Days of Duveen.

Basato su fatti reali è anche l’episodio di Frances Mc Dormand cronista e partecipe del Maggio parigino del ’68. Il leaderino cool Zeffirelli, sempre in plastica posa, è Timothée Chalamet, e il vero reportage di ispirazione, The Events of May: A Paris Notebook, era di Mavis Gallant.

Struttura eccentrica, perfezionismo maniacale, quinte teatrali che scorrono e inserti di animazione-gioiello: la dimensione rarefatta di cinema di Wes Anderson sembra obbedire alla massima di Oscar Wilde per cui l’arte non deve esprimere altro che se stessa. Non sono le figure storiche ma le idee, i movimenti culturali e le loro suggestioni estetiche a intrigare il regista.

Il marchio stilistico di Wes Anderson è inconfondibile in ogni singolo fotogramma, qui in versione più estrema che in Grand Budapest Hotel. The French Dispatch è da guardare e basta, rinunciando a una sintassi logica e convenzionale. No question, Anderson non vuole proprio che ragioniamo, impone agli attori di recitare a velocità supersonica. Perfino i dialoghi devono sovvertire il senso comune della vita ordinaria.

fonte Huffinton Post