Il seppia è il colore dell’assurdo. I giorni (in)felici di Samuel risplendono in un film beckettiano

In sala dal 1° febbraio (per BIM) “Prima danza, poi pensa – scoprendo Beckett”, non solo un biopic dell’autore di “Aspettando Godot”, firmato dal premio Oscar James Marsch, ma un film “beckettiano” con un Gabriel Byrne perfetto nei panni del grande drammaturgo. Una trama annodata di momenti salienti dalla vita di Samuel B. Un percorso à rebours che lo stesso protagonista racconta a un sé stesso immaginario durante la cerimonia di consegna del Nobel nel 1969. Ovvero, quel riconoscimento che lo consacrò alla fama e che Beckett chiama “catastrofe”. Presentato al Torino FilmFest 2023 …

Non è propriamente, o comunque non solo, un biopic il film che James Marsch ha dedicato all’autore di Aspettando Godot: Prima danza, poi pensa – scoprendo Beckett , in uscita il primo febbraio nelle sale italiane.

È piuttosto una trama annodata di momenti salienti dalla vita di Samuel B. Un percorso à rebours che lo stesso protagonista racconta a un sé stesso immaginario durante la cerimonia di consegna del Nobel nel 1969. Ovvero, quel riconoscimento che lo consacrò alla fama e che Beckett chiama “catastrofe” (in realtà fu la moglie Suzanne a definirlo così).

Marsh parte da lì e con un balzo audace fa della narrazione un meta-racconto con Beckett che, chiamato sul palco per ricevere il Nobel, si inerpica invece per il boccascena e si ritrova in un non-luogo. Qui, in questa sorta di caverna platonica o di camera caritatis di uno psicoanalista (Beckett fece un paio di anni di terapia), ripercorre gli snodi focali della sua esistenza, incalzato dalle domande di un suo implacabile alter ego.

Protagonista del doppio ruolo è un Gabriel Byrne in perfetto equilibrio tra le parti, oltre ad avere un’impressionante somiglianza fisica con Beckett. Il registro principale è quello di una malinconia stagnante, alla Oblomov, come infatti lo soprannominò ai tempi Peggy Guggenheim.

Ma ci sono i lampi dell’ironia a sferzarla. La piega dell’assurdo a distorcere la banalità del quotidiano. A rendere dramaticule la rottura con il mentore James Joyce (un impalpabile Aidan Gillen) per via dell’invadente figlia Lucia o persino la tragica parentesi da partigiano in Francia, quando per un soffio scampò a una retata nazista.

Tutta la regia procede in levare, seguendo la sceneggiatura rarefatta di Neil Forsyth e quello che nel titolo inglese non è “la” vita ma “una” vita di Beckett. Un’interpretazione particolare, leggera come un volo di aquilone che apre e chiude la sua parabola. Impedendosi, al tempo stesso, di sprofondare nell’immensità di una figura così iconica da diventare aggettivante (come Kafka e kafkiano), o di perdersi nei riflessi

Il Samuel “scoperto” dal film è il ragazzo segaligno (incarnato taglientemente da Fionn O’Shea) che dagli interni grigi di una ricca casa irlandese argina la castrazione di una madre austera per inseguire i suoi sogni in Francia, artista bilingue e innovativo su diversi fronti.

Eppure, in qualche modo, Beckett sembrerà sempre più subire che assecondare il suo destino, tallonato da figure femminili a cui alternativamente sfugge o si lega. La più negletta è Lucia, che viene descritta già immersa nella sua incipiente schizofrenia e ubriaca di balli da sala (ebbe, invece, una notevole formazione di danzatrice con Dalcroze e un talento acclarato sulle scene di Parigi).

Anche la compagna di una vita e di ideali, Suzanne (calzata con dolente sensibilità da Sandrine Bonnaire), si ritrae nel tempo a fare i conti economici con i ricavati delle opere, sempre più amareggiata dalla compresenza dell’amante Barbara Bray (Maxine Peake). L’unica che potrebbe far valere una sua autonomia di carriera come giornalista, ma che alla fine confessa allo stesso scrittore di aver bisogno del suo genio per andare avanti. Insomma, tutte satelliti intorno a un sole nero.

Dal brillante colpo di scena iniziale, il film si annacqua un po’ lungo un percorso scandito e un finale prevedibile, ma quello che (non) sapevamo dei giorni (in)felici di Beckett è stato tracciato con pennellate lievi, i giusti toni seppiati e il senso ritrovato per l’assurdo.