In nome del padre onnipotente. Torna il capolavoro (restaurato) dei Taviani alla Festa di Roma
Capolavori che ritornano: “Padre padrone” dei Taviani, Palma d’oro a Cannes ’77 riproposto alla Festa di Roma in versione restaurata. Un film crudele, crudo, ma necessario. Che racconta la nostra umanità dall’interno: in luoghi che, come società, abbiamo attraversato ma vogliamo negare: la comunità contadina patriarcale. Nella quale l’individuo conta meno di niente. Liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Gavino Ledda, visto a Venezia 77 interprete del nuovo film di Salvatore Mereu, “Assandira“, dall’omonimo libro di Giulio Angioni (Sellerio) …
“Forse ai nostri giorni l’obiettivo non è quello di scoprire che cosa siamo, ma di rifiutare quello che siamo. Dobbiamo immaginare e costruire quello che potremmo essere”.
Michel Foucault, Perché studiare il potere
Quello che siamo e quello che potremmo essere. L’inevitabile, necessaria ribellione di un ragazzo al potere, per ri-scoprire, addirittura con autentica sorpresa, se stesso.
Una delle tante ribellioni raccontate dal cinema in quegli anni di piena ebollizione sociale, gli anni Settanta, ma forse più efficace, fondante, rivelatrice, di tante altre. Qui il “potere” è infatti incarnato nel “sangue del proprio sangue”: il padre e padrone; un pastore, attaccato a ciò che è suo, la “roba” di Verga, si tratti di cose o di persone, di cui difendere e ribadire il possesso.
Siamo al racconto della “famiglia”, luogo dei maggiori contrasti e delle separazioni, vissuta come prigione in anni nei quali i giovani “ribelli” spesso scappavano di casa; per fuggire al dominio, tentavano di tutto, la vita in strada, le comuni, altro…
Restaurato ora dal Centro Sperimentale di Cinematografia, in collaborazione con l’Istituto Luce-Cinecittà, Padre padrone (1977) capolavoro di Paolo e Vittorio Taviani è passato alla 15esima Festa del Cinema di Roma.
Si tratta di un restauro davvero molto atteso, affatto “di rito”, sia per l’importanza del film sia per il fatto che Padre padrone, nato originariamente come film in 16mm per la televisione, solo grazie al restauro può ora sbrigliare così del tutto la gamma visiva dei suoi ricchi significati iconici.
Il film vinse a sorpresa la Palma d’oro di Cannes 1977, al cospetto di contendenti del calibro di Robert Altman o Wim Wenders; si disse allora grazie soprattutto all’opera del presidente della giuria del festival, Roberto Rossellini, che apprezzò il lavoro di Paolo e Vittorio Taviani ispirato “liberamente” (con la “libertà necessaria”, dice con maggior precisione lo stesso Gavino Ledda nell’epilogo del film) al noto ed omonimo romanzo autobiografico proprio di Gavino Ledda (Padre padrone. L’educazione di un pastore, editore Feltrinelli, 1975), scrittore nato a Siligo in provincia di Sassari.
Meglio dire subito che, oltre ai premi, oltre ai tanti riconoscimenti, ci furono anche molte contestazioni ad attendere il film (come peraltro era già successo per il libro), ed in primis proprio da parte di tanti sardi che lo definirono in generale “falso e calunnioso”, “mistificante”, “colonialista” e che rimproverarono a Gavino Ledda di essersi fatto, infine, strumentalizzare.
Ma si veda, per le testimonianze critiche, ad esempio anche Ombre Rosse n. 22 – 23 del 1977 e l’articolo di Antonio Setzi; critiche, come il film, figlie dei tempi. Proprio il tempo passato può ora aiutare a collocare un film di indubbio valore (in parte già lo ha fatto), che proprio nel tempo ha visto ingrossare le fila dei suoi estimatori. Anzitutto, l’idea che gli autori abbiamo voluto generalizzare una vicenda familiare assai emblematica, per farla diventare un discorso sul tutto, ora pare né così fondata, né efficace, dal punto di vista narrativo. Ma il dibattito continuerà…
A Siligo, paesino in provincia di Sassari, in una famiglia di pastori, il padre (un Omero Antonutti che interpreta magnificamente Efisio Ledda) preleva a forza Gavino dalla scuola a soli sei anni perché lo aiuti a governare il gregge nei pascoli di Baddevrùstana (Valle frondosa). Dice alla maestra interdetta e protettiva nei confronti dei “suoi” bambini (una “bambina” tra bambini lei stessa): “Solo solo. Mi serve per il lavoro, me lo prendo”. Quando esce da quell’aula a forza per non rimetterci mai più piede Gavino è ancora all’abc, non sa ancora né leggere né scrivere.
Il padre, un uomo più duro della pietra, che vuole sfuggire alla sempre incombente miseria che fa parte del suo stesso corpo, deciso, inflessibile insegna al piccolo Gavino la vita del pastore, che è quella che ha riservato per lui. Soltanto per un poco permette a Gavino di vivere in paese, insieme alla mamma e ai fratelli, ma ben presto lo relega del tutto nel podere di famiglia, di cui Gavino diviene guardiano e prigioniero. Giorno e notte. Con tutte le paure infinite di un bambino. Con tutte le esperienze che un bambino deve ancora fare… e che Gavino, nonostante tutto, farà, in modo selvatico, strappando tutto ciò che riesce a strappare a quella natura brada…
La sottomissione è senza limite, nei confronti di ogni desiderio ed ordine del Padre / Padrone. Nessuno può proteggerlo dal Padre, nemmeno la famiglia, nemmeno la madre. Nessuno ne ha la forza. Gavino obbedisce, esegue, per rispetto e per paura, per disperazione ma cova sempre più rabbia nei confronti di chi gli sta rubando la vita. Intanto cresce. Diviene un uomo.
Troverà un poco di conforto in qualcosa di suo e di “astratto”: con lo studio della musica e in particolare della fisarmonica e infine inizierà il suo percorso verso la liberazione, allontanandosi da quei luoghi e da quel padre, che odia entrambi, allo stesso modo. Lui rifiuta quella terra e quella terra lo rifiuta. Il padre no, a suo modo, lo odia e lo rispetta allo stesso tempo.
Andrà a fare il militare, in continente, conoscerà un commilitone (Nanni Moretti) che gli insegnerà il potere delle parole, ed a queste Gavino (Saverio Marconi) deciderà nel tempo di consacrarsi, con l’ostinazione del sacrificio (che conosce bene); diventerà glottologo.
Un’istituzione come quella del servizio militare, paradossalmente (circostanza, anche questa, criticata da molti all’epoca, come contesto plausibile), lo “libererà”. Istituzione tra le tante, la “scuola” tra le prime, quella del “servizio militare” contestata anche dal Movimento del ’77.
Film crudele, crudo, ma necessario. Che racconta la nostra umanità dall’interno: in luoghi che, come società, abbiamo attraversato ma vogliamo negare: la comunità contadina patriarcale. Nella quale l’individuo conta meno di niente. A contare è la famiglia, ed il suo capo. Ai destini della famiglia ogni cosa, ogni persona, può essere sacrificata. Ogni comportamento, ogni scelta ribadisce questo concetto. Lo stesso “padre”, nella sua scellerata onnipotenza, è in fondo inserito in un meccanismo di protezione e mantenimento del gruppo che determina solo in parte. Scelte ancestrali che subisce anche lui.
Il film racconta, si diceva, una delle tante ribellioni di un figlio nei confronti del padre e di ciò che incarna. Ribellione anche violenta. Disperata. Che cerca sempre di non tracimare, di non usare violenza. Comunque, lotta tra generazioni…
Lotta contro il potere e lotta contro la natura. La natura per Gavino non è nient’altro che ostilità e violenza; nessun idillio per chi ha la bocca chiusa e non conosce parole per descrivere le cose.
La terra matrigna dalla quale però separarsi non si può, né si vuole, e dove, nonostante tutto Gavino Ledda torna a vivere, per scoprirla, per “decifrarla”. Scrive Rocco Scotellaro: “Sradicarmi? la terra mi tiene / e la tempesta se viene / mi trova pronto”.
Difficile, forse impossibile, recidere quelle radici.
Enzo Lavagnini
Regista, sceneggiatore, produttore e critico cinematografico. Suoi i documentari: "Un uomo fioriva" su Pasolini e "Film/Intervista a Paolo Volponi". Ha collaborato con Istituto Luce, Rai Cultura e Premio Libero Bizzarri. Tra i suoi libri, "Il giovane Fellini" , "La prima Roma di Pasolini". Attualmente dirige l'Archivio Pasolini di Ciampino
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