La fuga dello scrittore nella foresta incantata

“Kaisa’s Enchanted Forest” apre la sezione “Native” al Festival di Berlino 2017. La regista finlandese Katjia Gauriloff inscena i racconti della bisnonna: le fiabe e i miti della popolazione di lingua sami skolt in Lapponia. Alla base la storia dello scrittore svizzero Robert Crottet che stanco della società occidentale si rifugia tra le foreste dell ‘Artico…

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Uno scrittore svizzero, Robert Crottet, fugge dalla Storia: dopo la rivoluzione russa, dopo essersi ammalato di tubercolosi, decide di abbandonare la società occidentale e si rifugia nell’Artico. Qui, in Lapponia, scopre la popolazione di lingua Skolt Sámi e soprattutto incontra Kaisa: la più anziana, depositaria del sapere dei luoghi, che inizia a raccontare i loro miti.

La regista finlandese Katjia Gauriloff è la pronipote di Kaisa e inscena le storie della bisnonna. C’è un abisso narrativo e letterario alla base di Kaisa’s Enchanted Forest, il film di 82 minuti che ha aperto la sezione Native alla Berlinale 2017. Ma c’è anche un discorso visivo peculiare basato sulla pura evocazione. Dopo l’inaugurazione del Festival, col biopic Django di Étienne Comar sulla figura di Django Reinhardt, il primo colpo arriva dalle sezioni collaterali.

Nell’incipit Kasia ci invita a entrare nel racconto: è una dichiarazione di intenti, atto di consapevolezza del narrare operata proprio dalla guida, figura timone che conduce all’interno delle storie. A quel punto la bisnonna dell’autrice innesca un caleidoscopio: attinge dalla favola e dal mito, racconta una fiaba popolare che viene raffigurata con l’animazione.

Da una parte l’etnia Skolt Sámi è scoperta da un esterno, e ne seguiamo la ricostruzione del percorso, dall’altra Kaisa dall’interno agisce come guardiana della foresta e lo aspetta per iniziarlo alla tradizione. Lo scrittore respinge il mondo, arriva in un piccolo villaggio che vive di pesca e renne, quindi vi si stabilisce.

La regista procede per quadri, attraverso una costruzione visiva basata sull’associazione: si muove tra immagini di repertorio, filmini di famiglia, riprese naturali e animazione. Noi, nella foresta magica, ascoltiamo i racconti. La sua ipotesi di cinema evoca Guy Maddin, in particolare gli esperimenti sul territorio come My Winnipeg, e si lega all’operazione condotta da Aleksej Fedorchenko ne Le spose celesti dei Mari della pianura: lì si scoprivano le donne ancestrali ai margini della federazione russa, qui la “gente della foresta” nell’estrema Lapponia. Il dispositivo è lo stesso: i popoli ignoti vengono svelati mediante il loro stesso storytelling, quando si posizionano davanti alla cinepresa acquistano dignità e “diventano” racconto.

Kaisa’s Enchanted Forest rappresenta uno spazio sia fisico sia mentale: c’è la ripresa concreta della foresta, certo, ma c’è anche l’idea della regione come spazio idillico, un’arcadia in cui riparare per allontanarsi dall’esterno e aggirare i colpi della Storia (come la guerra).

È un film su un luogo e insieme sull’atto di narrare, di cui esplora le varie possibilità: mito, racconto intimo, cronaca, politica. Non è solo etnografia: è un oggetto che contiene più istanze, tra cui il diritto alla divagazione (come sempre quando una nonna racconta), e le coniuga in un esito fuori da ogni etichetta. Qui è la sostanza di “Native – A Journey into Indigenous Cinema”, la splendida sezione della Berlinale dedicata al cinema indigeno: un invito a gettare lo sguardo altrove, stavolta all’Artico, alle sue storie e alla riflessione sulle modalità di raccontarle.