L’avventurosa storia de “La dolce vita”. Il dietro le quinte doc del capolavoro di Fellini
Il documentario di Giuseppe Pedersoli fuori concorso a Venezia 77. La storia di Peppino Amato, grande produttore, che si innamorò del copione di Fellini e spese tutto quello che aveva (e anche di più) per vederlo realizzato.
Dietro ogni film c’è una storia, spesso travagliata, di costruzione quotidiana, imprevisti, scontri. Ed è regola generale che gli ostacoli siano proporzionali alla grandezza del film. La dolce vita di Federico Fellini, che uscì nelle sale nel 1960, non fa eccezione. Il documentario La verità su La dolce vita di Giuseppe Pedersoli, presentato fuori concorso a Venezia 77, riporta a galla proprio il non visto del capolavoro felliniano.
Più precisamente lo scopo del lavoro di Pedersoli, prodotto da Arietta Cinematografica e Istituto Luce (che curerà anche la distribuzione), è quello di rendere il giusto merito a uno dei produttori del film: Peppino Amato. Un legame che per Pedersoli, il cui cognome mistifica il suo essere figlio d’arte (il padre Carlo è certo più noto come Bud Spencer), va anche al di là della semplice ammirazione professionale, Amato infatti era suo nonno.
Il documentario mescola interviste di repertorio e originali dei protagonisti del cinema italiano, così come della famiglia di Amato, a cui aggiunge una narrazione fuori campo affidata alla lettura della corrispondenza originale tra regista e produttori e una linea narrativa recitata.
Tutto comincia in una stanza all’hotel Excelsior di Roma, che affaccia, guarda caso, su via Veneto, dove Peppino Amato sfoglia meravigliato una sceneggiatura che ha già incontrato parecchi rifiuti. Amato era un produttore di tutto rispetto, che alle sue spalle aveva già capolavori del calibro di Roma città aperta di Roberto Rossellini (a lui si deve la fortunata scelta di Anna Magnani per il ruolo di Pina) e Umberto D. di Vittorio De Sica.
“Era ossessionato dai film che aveva fatto più che da quelli che non aveva fatto”, racconta dagli studi di Cinecittà il critico Mario Sesti, voce narrante del documentario. Il copione che stava leggendo era ovviamente quello de La dolce vita, per cui Fellini aspettava una decisione da Dino De Laurentiis, ancora perplesso sul film, con cui aveva firmato poco prima un contratto di esclusiva assoluta. Amato chiama De Laurentiis e lo convince ad uno scambio: La dolce vita per La grande guerra.
Il documentario di Pedersoli vira quindi sulle interviste ricche di aneddoti noti e meno noti sui metodi di lavoro di Fellini e sulla corrispondenza tra Amato e Fellini, ma anche tra i due e Angelo Rizzoli, socio di Amato a cui era legato anche da una profonda amicizia. Le richieste del regista aumentano di giorno in giorno, fino a che i due produttori non si vedono costretti a fissare un tetto massimo di 400 milioni di lire.
L’intento di Pedersoli è mostrare da un lato il versante umano di suo nonno e dall’altro indagare l’idea del “dietro le quinte”. Il primo obiettivo è garantito più che dalla corrispondenza, pragmatica e legata ai finanziamenti del film, dalle testimonianze dei familiari e da un simpaticissimo filmato d’archivio assieme a Vittorio De Sica. Il secondo invece è più sottile, si concretizza nella ricerca del non visto (con il risultato di mostrare Amato perlopiù irrimediabilmente solo), anche al di là del racconto, mostrando per esempio i doppiatori delle lettere nello studio di doppiaggio.
Con l’andare della lavorazione gli scontri si intensificano. Fellini scrive di voler “lavorare in pace”, mentre i due produttori si trovano in costante difficoltà davanti all’aumento incessante dei costi di produzione. Finirà molto male, le richieste arriveranno a toccare quota 800 milioni, con Rizzoli che si rifiuterà di pagare la sua parte visto lo sproporzionato aumento non previsto dagli accordi. Per Amato lo stress sarà enorme e porterà a due infarti, di cui il secondo fatale. Nonostante i dissidi, Fellini non smetterà mai di riconoscere al suo produttore il fatto di essere stato l’unico a credere ne La dolce vita.
Il documentario di Pedersoli si ingolfa, però, con troppa fiction, che pian piano relega a puro commento le incursioni di Sesti e dei materiali di archivio. Il lato più interessante del lavoro è, invece, proprio il racconto dei protagonisti, la genesi di un capolavoro prima che il mondo ne conoscesse l’esistenza, l’intuizione di un produttore. La presenza di una parte recitata canonicamente comporta il rischio di appiattire il resoconto dei fatti sulle necessità che ogni racconto di finzione porta con sé. Un rischio che forse, in storie come queste, così ricche di dettagli e retroscena, non c’era bisogno di prendersi.
Tobia Cimini
Perditempo professionista. Spende il novanta percento del suo tempo leggendo, vedendo un film o ascoltando Bruce Springsteen. Nel restante dieci, dorme.
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