“Monolith”, se la mamma non compra mai balocchi ma solo bolidi per sé

Nel vuoto della programmazione estiva, “Monolith”, thriller di Ivan Silvestrini dall’omonimo graphic novel della Bonelli, casa di Dylan Dog. Una giovane mamma distratta ed isterica dovrà salvare il suo bimbo imprigionato nella sua automobile super tecnologica. Un tentativo di fare film di genere ma…

La Monolith è un’automobile avveniristica. Il massimo in fatto di sicurezza per i passeggeri. Ogni evenienza è presa in considerazione e scongiurata, grazie al computer di bordo. Tutto ciò ci dice nel prologo, lo spot che la promuove, e in effetti, per una volta una pubblicità non mente… finché non entra in gioco la variabile “uomo”.

Il viaggio nel deserto in auto della bionda Sandra (Katrina Bowden), ex stellina del pop e di suo figlio, David, cucciolotto di due anni, per raggiungere i genitori del marito, si rivelerà un incubo senza fine dal momento in cui il “monolitico” protocollo di sicurezza della vettura, controllata come ogni altra funzione dal computer di bordo, “Lilith”, entrerà in collisione con le debolezze umane.

E di debolezze, la nostra “eroina” ne ha da vendere. Distratta come una studentessa in gita scolastica, nevrotica e capricciosa oltre l’umana sopportazione, irritabile per un non nulla. Specie se a farla uscire di testa è il bambino, i cui accenni di vita, tra una lamentela della mamma, un rimbrotto e un attacco d’isteria, vengono inesorabilmente anestetizzati con il videogioco sullo smatrhphone.

Ma il cellulare non contiene unicamente il simpatico coccodrillo, svago del bimbo, ma anche i comandi della super car, chiusura ermetica compresa. Lo sviluppo della vicenda è facilmente intuibile…

Di spunti Monolith ne propone parecchi, seppure, per i limiti della sceneggiatura e quelli per mettterla in scena, non sempre sono sviluppati come meriterebbero. Il thriller diretto da Ivan Silvestrini e ispirato e sviluppato in parallelo all’omonimo graphic novel (edito da Sergio Bonelli Editore), creato da Roberto Recchioni, autore del soggetto del film, curatore di Dylan Dog e co-creatore di Orfani e Mauro Uzzeo, e illustrata da Lorenzo Ceccotti, in arte LRNZ, sembra puntare l’indice verso alcune distorsioni della società contemporanea, a cominciare dai figli “accessori” che come tali sono di volta in volta, motivo di rimpianto della “persa” libertà e sul piano delle aspirazioni individuali causa di rinunce ancora brucianti.

Il bambino è asmatico ma Sandra proprio non potendo rinunciare alla sigaretta, innesca i sensori dell’auto e con essi, tutta una serie di fatali reazioni a catena. Il film non sfrutta a pieno regime alcune carte proprie del genere “bloccati sul posto”, il cane che l’aggredisce è veramente troppo piccolo per poter essere una minaccia reale così come le suggestioni del deserto restano uno sfondo appena accennato.

Il tempo dilatato funziona a strappi e l’effetto straniante non entra quasi in gioco. Le stesse idee dell’isolatissima centrale elettrica e dell’aereo di linea abbandonato (ma che ci fa un aereo nel mezzo del nulla?), lasciano un retrogusto d’incompiuto. Insomma, la tensione ha il freno a mano tirato.

Di contro, sono almeno due le intuizioni che da sole ne giustificano la visione; apprezzabilissima sul piano dinamico la sequenza dell’auto che risale la scarpata per riguadagnare la strada, con punto di vista in soggettiva dal posto del guidatore. D’impatto non inferiore è la scelta sul piano emotivo di lanciare l’auto nel fondo della valle come estremo tentativo di salvare il bimbo. Se non prende fuoco o non s’ accartoccia, David è libero.

C’è spazio, poi, anche per il simbolismo, mentre Sandra disperatamente spinge l’auto verso il bordo del burrone, “ripartorisce”. Questa volta in piena coscienza. Monolith, si direbbe che guardi alle teorie per cui l’auto sia sempre più percepita come un utero, che in questo caso, potrebbero essere addirittura due. Da un lato l’ipertecnolgica vettura che si sostituisce sempre più a noi nelle nostre scelte e che, come un ventre oscuro, protegge il bambino dal’esterno e persino da Sandra, che vanamente cerca di convincerla ad aprirle lo sportello, dall’altro, la stessa protagonista che nel “travaglio” estenuante che sopporta tentando di salvarlo, si riconcilia col più convenzionale ruolo di madre.

Un ruolo che il bimbo decide alla fine di riconoscerle, non chiamandola più per nome ma “mamma”. Monolith, prodotto da Sky Italia, Lock & Valentine, Sergio Bonelli Editore e distribuito da Vision Disrtribution, resta nonostante le riserve, un buon tentativo di fare film di genere, percorso che in Italia è non meno accidentato del sentiero desertico in cui s’avventura l’auto.
Le precedenti apparizioni bonelliane al cinema non possono dirsi fortunatissime nonostante si trattasse di due pesi massimi della casa editrice, Tex e Dylan Dog, che sia la volta buona?