Sono Ophelia e sono stufa di annegare…
È “Ofelia non annega” il film della videoartista Francesca Fini, una rilettura contemporanea del personaggio shakespeariano che si ribella al suo destino di eroina romantica. Centinaia di Ofelie che, ognuna a suo modo, racontano un conflitto, un pezzo di storia, un gioco, attraverso il repertorio dell’Istituto Luce. Un film sperimentale destinato ai Musei (ha debuttato al Macro di Roma) e all’uscita in dvd…
«… ella lassù, mentre si arrampicava per appendere l’erboree sue ghirlande ai rami penduli, un ramo, invidioso, s’è spezzato e gli erbosi trofei ed ella stessa sono caduti nel piangente fiume. Le sue vesti, gonfiandosi sull’acqua, l’han sostenuta per un poco a galla, nel mentre ch’ella, come una sirena, cantava spunti d’antiche canzoni, come incosciente della sua sciagura o come una creatura d’altro regno e familiare con quell’elemento. Ma non per molto, perché le sue vesti appesantite dall’acqua assorbita, trascinaron la misera dal letto del suo canto a una fangosa morte».
(Shakspeare: Amleto)
Gli eroi muoiono sempre, e le eroine non fanno eccezione. Ma Ophelia è un’eroina diversa, trasversale all’opera di Shakespeare pur essendo la chiave psicologica del dramma, l’elemento di feroce realtà. Il film di Francesca Fini fruga nel conflitto tutto femminile o forse solo umano, fra il sentire e l’essere, fra la pulsione amorosa e il senso di colpa, fra la seduzione e la bellezza.
Nell’Amleto non ci sono personaggi totalmente negativi o totalmente positivi. Come in un quadro di Pollock ci sono solo segni violenti, intricati, graffianti, seducenti. Nel maelstrom delle passioni, degli intrighi, della guerra, c’è una sola linea che rimane dritta evidenziando ancora di più il garbuglio delle cose: l’amore di Ophelia che la porterà alla pazzia e poi al suicidio. In quell’intrico formidabile la follia è forse l’unica via di scampo, è paradossalmente l’unico elemento di lucidità, l’unica parola di verità.
Il film è strutturato in una sequenza di performances ordinate contrappuntisticamente da scorci d’epoca tratti dall’immenso archivio Luce. Nei quadri del film, quasi delle slide, siamo costretti a confrontarci con il corpo di Ophelia; un corpo dipinto, esaltato, schiaffeggiato. Un corpo talmente materico, talmente immanente da trasformarsi nell’opposta rarefazione di una luce algida, fotografato senza ombre, una realtà astratta, bidimensionale.
Ophelia, cadendo nella seduzione di Amleto, trova il suo corpo e si pone fuori dal tempo storico che la pretende illibata, proprietà del padre prima ancora di essere proprietà del marito. La metamorfosi è cercata, desiderata, Ophelia mangia voluttuosamente le cicale che di metamorfosi se ne intendono molto più delle farfalle, e sono meno rassicuranti.
Nella contemplazione degli insetti, tutti coleotteri, Ophelia traccia dentro se stessa il percorso di quella metamorfosi, capisce che la sua animula fragile deve dotarsi di un robusto esoscheletro se vuole avere qualche chance di sopravvivenza, ma il rischio è che quell’armatura diventi anche la sua prigione.
Così il volto è ricoperto da unghie finte: le squame della seduzione; così il volto è ricoperto di gesso per cavarne una maschera che evidenzi bocca ed occhi: strumenti della seduzione. Il corpo muta e scompare continuamente nel flusso incalzante della narrazione, nel formarsi di una coscienza critica del sé femminino.
Ci sono cento Ophelie nel film della Fini, ognuna racconta un conflitto, un pezzo di storia, un gioco. Non giocano così infatti le bambine? Con la sottoveste della mamma davanti allo specchio, o le scarpe da grandi col tacco, o il rossetto scarabocchiato sulle labbra. Ophelia deve arrivare alla follia, una follia intesa non come fatto patologico, ma strumento di comprensione della verità. Una follia dionisiaca che porta alla conoscenza per via emotiva, viscerale, ben lontana dall’apollinea apparente razionalità degli altri protagonisti della tragedia.
Gli altri, quelli seri, pretendono di capire il mondo infilzandolo con una spada avvelenata, librando battaglie inutili e cruente, nuotando in un mare di intrighi e di sangue, risolvendo tutti i conflitti con la morte. Ophelia ha solo il suo corpo per misurare il peso delle cose.
La luce muta anch’essa e i quadri conquistano la terza dimensione: la natura finora assente irrompe nelle performances in esterno collocate in luoghi fortemente simbolici come, una su tutte, la “casa albero” a Fregene dello Studio Perugini. La natura è la verità finalmente conquistata come nel finale pirandelliano di Così è se vi pare, e l’acqua del fiume, simbolo di purificazione o di morte, è placidamente in attesa del corpo di Ophelia.
Nel famoso dipinto di Sir John Everett Millais, Ophelia è rappresentata con le braccia aperte verso il cielo, posizione tipica dei Santi. Non basta morire per diventare eroine, bisogna pure essere Sante, e i Santi hanno anche un altro attributo: conoscono la verità. Ma l’Ophelia di Francesca Fini non ha alcuna intenzione di morire, non vuole diventare né eroina né Santa. Vuole essere vera, libera, sé stessa. Per questo non muore, per questo diventa “normale”.
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