Paolo Taviani addio. Il cinema d’autore (e d’utopia) perde l’ultimo fratello
È scomparso a 92 anni Paolo Taviani, a distanza di sei anni dal fratello Vittorio. Un sodalizio artistico, il loro, un perfetto tandem di armonia intellettuale che ha segnato la storia del cinema attraverso un rigoroso sguardo etico e politico sul presente e sulla storia, senza mai perdere di vista l’utopia. E con tanta letteratura come nell’ultimo “Leonora addio”. Lunedì 4 marzo il saluto alla Protomoteca del Campidoglio dalle 10 alle 13 …
A distanza di sei anni dal fratello Vittorio è scomparso, il 29 febbraio in una clinica romana, Paolo Taviani. Aveva 92 anni. A portarlo via una malattia breve e improvvisa. Si stava preparando a tornare sul set, perché “il cinema mi tiene vivo”, diceva. E c’era pure un titolo per il nuovo film: Il canto delle meduse. Quattro storie ai tempi del Covid tra cui spicca quella di una donna che, in fin di vita a causa della pandemia, esprime l’ultimo desiderio: non essere sepolta accanto al marito che odia. A ribadire, insomma, la passione di tutta una vita: Pirandello.
Proprio come in quel suo ultimo titolo (del 2022) e il primo senza Vittorio: Leonora addio, un ’opera mondo in cui l’autore dei Sei persanaggi fa nuovamnte da filo conduttore a una struggente riflessione sull’esistenza e il suo grottesco, la vecchiaia, l’arte. Ma anche il perfetto e coerente coronamento di un percorso artistico (e politico) compiuto in coppia col fratello per sessant’anni.
Indivisibili i fratelli Taviani lo sono stati davvero. Un perfetto tandem di armonia intellettuale e artistica che ha segnato la storia del cinema. Nati a San Miniato (Pisa) – Vittorio il 20 settembre 1929, Paolo l’8 novembre 1931 – da padre partigiano (un avvocato antifascista), la coppia di cineasti ha condiviso una vita di creatività, culminata con l’ultimo film insieme, sorta di testamento spirituale da Fenoglio, Una questione privata, a suggellare quella visione etica, politica ed artistica che ha accompagnato il loro cinema fin dagli esordi.
Quell’inizio insieme a Valentino Orsini, nei primi cinquanta, che è già una dichiarata scelta di campo, prima con una manciata di documentari sociali e poi nel ’62 con Un uomo da bruciare, dedicato alla memoria del sindacalista siciliano freddato dalla mafia nel ’55: Salvatore Carnevale che rivive sul grande schermo col volto di Gian Maria Volontè, attraverso un personaggio sfaccettato, con le sue debolezze umane, malvisto per questo, allora, dai comunisti più rigorosi.
Perché i Taviani, gli schematismi e i “santini” di tanto cinema militante li hanno sempre evitati come la peste. Affilando la loro poetica tra marxismo, letteratura (tanto Pirandello, soprattutto) e psicoanalisi che li ha portati, costantemente, ad interrogarsi con sguardo critico sulla Storia e sul presente, senza mai perdere di vista l’utopia.
Vedere per credere il successivo I sovversivi (1967), che segna la fine del sodalizio artistico con Orsini, anticipando gli umori del Sessantotto, attraverso un giovanissimo e ribelle Lucio Dalla che davanti ai funerali di Togliatti pronuncia la frase fatidica: “Era ora!”. Che provocò, persino, la rinuncia al set da parte di qualche compagno “ortodosso” tra i collaboratori dei registi.
Proseguendo oltre il Neorealismo – tutta la loro generazione si è formata da quelle parti – i Taviani si rivolgono allora ad un realismo capace di dialogare col presente e la storia, narrandone anche l’utopia – stella polare del loro cinema -, attraverso allegorie e metafore, spesso fatte di segni visibili e paesaggi simbolici.
È il caso di Sotto il segno dello scorpione (1969), dove Pasolini e Brecht si intrecciano di fronte al tentativo di creare una società ideale, in un luogo senza tempo, dove si scontrano comunità vecchie e nuove. O San Michele aveva un gallo (1972) personalissima rilettura di Tolstoj (Il divino e l’umano) nella cui ambientazione risolgimentale immergono le incertezze della sinistra italiana post Sessantotto. Seguito dall’ottocentesco Allosanfàn (1974) dove il sogno rivoluzionario, ieri come nei Settanta, è spazzato via dalla restaurazione.
Sono questi i titoli che portano i Taviani alle glorie dei festival, fuori dai confini nazionali. Berlino, Cannes fino alla Palma d’oro del ’77, con Padre Padrone, dalla biografia di Gavino Ledda che, attraverso l’incredibile storia di riscatto del pastore sardo, consacra i registi toscani al rango di vere star del cinema d’autore internazionale.
Negli anni successivi seguiranno soprattutto titoli letterari: Kaos (1984) e Tu ridi (1998) da Pirandello, Il sole anche di notte (1990) e la serie tv Resurrezione (2001) ancora da Tolstoj. Le affinità elettive (1996) da Goethe, La masseria delle allodole (2007), sul genocidio degli armeni, dal romanzo di Antonia Arslan. E ancora il trionfo alla Berlinale 2012 con l’Orso d’oro a Cesare deve morire, potente rilettura della tragedia schakespeariana interpretata dai detenuti di Rebibbia. Il Decamerone di Boccaccio, nel 2015, è il loro penultimo lavoro in coppia.
Soltanto un anno fa, il primo giorno di primavera, se ne andava un altro grande protagonista del nostro cinema d’autore: Citto Maselli. Oggi con la scomparsa di Paolo Taviani quella stagione straordinaria, capace di coniugare arte e politica, creatività e sociale, sembra davvero conclusa.
Gabriella Gallozzi
Giornalista e critica cinematografica. Fondatrice e direttrice di Bookciak Magazine e del premio Bookciak, Azione!. E prima, per 26 anni, a l'Unità.
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