Se “Napoli ferrovia” di Ermanno Rea diventa “Gomorra”. È “Caracas” di Marco D’Amore al cinema

In sala dal 29 febbraio (per Vision Distribution) “Caracas”: Marco D’Amore interpreta e firma la regia dell’adattamento, molto molto libero, del romanzo “Napoli ferrovia” di Ermanno Rea. Dopo “Nostalgia”, libro testamento del grande scrittore comunista napoletano portato al cinema da Mario Martone, qui una rilettura alla “Gomorra” che tradisce non poco le molte sfumature del testo originario. Ma che offre, comunque, l’occasione per (ri)leggerlo …

Giordano Fonte, celebre scrittore che torna dopo tanti anni di assenza nella sua città per annunciare che smetterà di scrivere, incontra Caracas che non ama le mezze misure, milita in un gruppo di neofascisti, detesta i ricchi e il capitalismo occidentale, aiuta i bisognosi e sta per convertirsi all’Islam. Yasmina, la sua bellissima amata in cui crede come “crede in Dio”, è distrutta dall’eroina.

Il comunista moderato e cauto e il filonazista estroverso; l’ateo e l’islamico; avvolto nelle sue reticenze lo scrittore, a caccia di “verità assolute” Caracas. Insieme percorrono instancabilmente il cuore più inospitale di Napoli, i vicoli della Ferrovia, vera porta di accesso alla città da quando l’hanno amputata del suo mare.

Questa stravagante amicizia costituisce la trama di Caracas, che il regista, attore e sceneggiatore napoletano Marco D’Amore, il Ciro Di Marzio della Gomorra televisiva (di cui poi è diventato anche regista), porta sul grande schermo dal 29 gennaio, prodotto da Picomedia, Mad Entertainment e Vision Distribution, in collaborazione con Sky. Per lui si è ricavato il ruolo dello stesso Caracas, il fotografo naziskin dalle misteriose origini sudamericane, mentre Toni Servillo veste i panni dello scrittore “vecchia cariatide comunista”.

Il film è la trasposizione molto, molto libera del romanzo Napoli ferrovia di Ermanno Rea (1927 – 2016), apparso nel 2007 per Rizzoli e ora in libreria per Feltrinelli, adattato per il cinema dallo stesso interprete e regista con Francesco Ghiaccio.

“Caracas era diventato fascista oppresso dalla violenza della città e aveva trovato ordine e sicurezza nel mito della patria, una famiglia nei suoi fratelli squadristi, in quel mondo per lui ammantato da una mistica guerriera rigeneratrice. Per la prima volta aveva sentito pietà e compassione, per questo si era fermato a vivere in quell’inferno” scrive Rea, e ribadisce Giordano a tratti voce narrante del film.

Il cameratismo di un gruppo di paracadutisti che di giorno inneggiano al Duce e si fanno tatuare con ferri roventi croci uncinate sul petto per poi, di notte, aggredire con bastoni e catene gli immigrati di quello sventurato quartiere multietnico, costituisce l’incipit di crudeltà gratuita, buio e perdizione del film che di questi toni (monotoni) si nutre per buona parte dei suoi 110 minuti di durata.

Ormai ottantenne, ancora una volta Rea vagabonda per Napoli, la città che ha abbandonato negli anni ’50, che inghiotte e terrorizza ma allo stesso tempo affascina. Ancora una volta Rea, grande narratore delle scomparse, torna in quella sua “città spugnosa”  in cui confrontarsi attraverso l’incontro con un alter ego, come ricorre anche in Nostalgia (uscito postumo per Feltrinelli 2016) recentemente portato al cinema da Mario Martone (2022), con Fierfrancesco Favino nei panni del protagonista.

Napoli Ferrovia costituisce la parte conclusiva della trilogia iniziata con il capolavoro Mistero napoletano (Einaudi 1995) e proseguita con La dismissione (Rizzoli 2002) sullo smantellamento dell’acciaieria Ilva di Bagnoli. Il romanzo mantiene come palcoscenico principale piazza Garibaldi – luogo di nascita di Rea e di elezione per Caracas – snodandosi attraverso le memorie familiari, sentimentali e topografiche del narratore e le esperienze di sangue e guerra di Caracas, in un continuo intreccio temporale e scambio di punti di vista. Ma ben poco di tutto questo resta nel film, dalle tinte così forti al limite del caricaturale, da finire persino a penalizzare l’interpretazione di un attore acclamato come Toni Servillo.

Il legame estremo e disperato di Caracas con Rosa La Rosa (Yasmina nel film e dall’interpretazione esasperata di Lina Camelia Lumbruso), una tossica bellissima e irrimediabilmente persa nella sua dipendenza, Rea lo identifica con la stessa città: “Caracas, amico mio, ma come te lo devo dire che Rosa La Rosa è Napoli. Bella e dannata alla stessa maniera. Rassegnati. Non pensarci più”.

E allo stesso modo Rea, in questo stupendo e malinconico romanzo, vive la sua città: si rammarica per tutte le occasioni perse e nuovamente vuole fuggire per sempre da Napoli, recuperare l’anonimato da qualche altra parte. Eppure è qui, in questi affollati luoghi dove non si può restare anonimi, che costruisce la sua mitologia dell’esilio: “Ogni tanto mi sento assalire dai sensi colpa per aver tagliato la corda, in quel lontano 1957. Mi dico che forse dovrei tornare a vivere qui in pianta stabile. Qui alla Ferrovia”.

Il “Grande Ritorno” e il suo mito e la paura di realizzarlo è anche l’interrogativo che si pone il narratore di La dismissione di fronte alla chiusura, lo smantellamento dell’Ilva che per anni è stata la locomotiva economica della città, l’unica fonte di reddito per moltissime famiglie napoletane, la promessa di riscatto operaio.

L’autore aveva già esplorato il generale, e cittadino in particolare, fallimento politico attraverso il suicidio di Francesca Spada, giornalista dell’Unità negli anni ’50 e protagonista di Mistero napoletano, il racconto di un dramma individuale che si fa simbolo di una sconfitta generazionale.

Sensi di colpa per essere fuggito, per i decenni di assenza, ma al tempo stesso desiderio di comprendere, ossessiva tentazione, subito respinta, di tornare: attraverso una magistrale narrazione, Rea cerca di spiegare a sé stesso e ai lettori, come e perché il sogno politico dei comunisti napoletani all’indomani della Seconda Guerra mondiale è morto, soffocato da una città prigioniera della guerra fredda e della miopia di un’intera generazione di politici. La Storia sappiamo è andata oltre. Ma i romanzi di Ermanno Rea restano comunque nel presente. E (ri)leggerli è un’esperienza da non perdere. Anche se a farceli ricosprire è un film non riuscito.