Prima la vita, poi il cinema. Lettera-omaggio di Francesca Comencini a suo padre, in sala

In sala dal 26 settembre per 01 Distribution “Il tempo che ci vuole” lettera-omaggio al padre, di Francesca Comencini. Con Fabrizio Gifuni nei panni del regista di “Tutti a casa”, un viaggio attraverso la memoria dell’infanzia e della giovinezza dell’autrice, gli errori, le cadute, la drammatica parentesi della tossicodipendenza e poi il cinema, ovviamente. Ma anche un ritratto generazionale di chi ha vissuto gli anni di piombo ma anche gli entusiasmi dei movimenti. Passato fuori concorso a Venezia 81 …

“Ho girato quaranta film senza parlare mai di me stesso e tu hai il coraggio di fare il primo film sulla tua vita”. È un Luigi Comencini ormai settantenne e col bel volto scavato di un formidabile Fabrizio Gifuni quello che si rivolge alla figlia, Francesca, che lo stesso coraggio, allora nel lontano 1984 per girare Pianoforte, l’ha ritrovato quarant’anni dopo per questa lettera-omaggio a suo padre, firmando un film personalissimo e “generazionale” allo stesso tempo.

Il tempo che ci vuole è passato. I ricordi dell’infanzia, le paure, le insicurezze e i fallimenti che più di tutti hanno segnato la sua formazione a cospetto di un padre così ingombrante, sono stati eleborati in quel grande laboratorio che è la memoria individuale così da poter diventare materia di un film.

Non ancora il suo quarantesimo, ma quasi la metà, attraverso un percorso cinematografico che ha toccato il cinema del reale più radicale e militante (Carlo Giuliani, ragazzo per esempio), quello più legato al sociale (Mi piace lavorare, mobbing su tutti), e ancora letterario (Lo spazio bianco dall’omonimo romanzo di Valeria Parrella e tanto altro ancora), fino alle grandi serie delle piattaforme (Gomorra, Luna nera e Django).

Un “apprendistato” lungo quarant’anni, insomma, di cui oggi Francesca Comencini scopre di dover tutto proprio a suo padre. Quell’uomo rispettoso e sensibile, capace di dialoghi alla pari con i più piccoli – come del resto testimonia tutto il suo cinema -, dal quale la regista ha cercato la distanza per tutta la vita, per essere diversa da lui. Ancor più nel fare cinema.

Il tempo che ci vuole è oggi il suo modo di ringraziarlo. Attraverso un racconto dall’impianto teatrale (dal teatro viene anche il suo ultimo potente lavoro sulla strage delle Fosse Ardeatine, Tante facce nella memoria) in cui sotto i riflettori sono solo loro due, senza le tre sorelle (Cristina, Paola, Eleonora), né la mamma (Giulia Grifeo di Partanna), in un dialogo di poche, pochissime parole ma di molto affetto tra una figlia e un padre.

Entrambi calati nel contesto storico dell’Italia degli anni di piombo, di cui la strage di piazza Fontana è l’incipit, confuso alle prime paure di Francesca bambina di fronte alla grande balena disegnata (e poi in mostra a piazza del Popolo), che di lì a poco sarebbe stata tra i personaggi del capolavoro televisivo di suo padre, Pinocchio. È su quel set che Francesca (Anna Mangiocavallo da piccola e una più tormentata Romana Maggiora Vergano da grande) lo sente urlare per la prima volta: “prima la vita poi il cinema e se non lo capisci è inutile che lo fai il cinema”. Sarà mantra e cuore di tutto il film e l’insegnamento per la vita.

Come Pinocchio disobbediente, testardo, bugiardo nel suo percorso di crescita, così Francesca attraverso gli entusiasmi dell’adolescenza, degli anni belli della bella politica, dei nuovi incontri. Il corso di telaio, quello di ceramica, esperienze imperdibili per la meglio gioventù (fricchettona) di quegli anni. Mentre il dialogo col padre si affievolisce e cresce la tensione sociale. Il rapimento Moro è lo spartiacque. Il volto di Fabrizio Gifuni che il presidente della DC lo è stato per Marco Bellocchio in Esterno notte, fa quasi cortocircuito nel vederlo ora padre della protagonista. L’arrivo dell’eroina è l’ultimo tonfo. La frattura definitiva. Ma è proprio allora che il padre sceglie stavolta d’imporsi: la porta via con sè a Parigi.

Nella stanzetta angusta dove dormono e vivono, di fatto prigonieri l’uno dell’altro, padre e figlia, si consumerà la “rota”, la lunga astinenza di Francesca, accudita da questo padre amorevole, ormai anziano e fragile: “tutta la mia vita è stata un destreggiarsi col fallimento” le rivelerà quell’uomo a cui il successo non è mai mancato. E sarà lui da padre ad offrire a Francesca la chance di salvarsi la vita. L’occasione successiva le arriverà dal cinema.