Quando le donne riprendono la parola. Con Sarah Polley (da Oscar) la ribellione delle “ancelle”

È fresco di Oscar per la miglior sceneggiatura non originale. È, infatti, un adattamento dell’omonimo romanzo di Miriam Toews, “Women Talking” di Sarah Polley nelle nostre sale dall’8 marzo. Una sorta di horror teatrale dell’autocoscienza che dà voce a una storia decennale di stupri subiti e rimossi dalla comunità religiosa, ai danni, ovviamente, delle donne. Ora finalmente decise a reagire alla violenza degli uomini e scappare. Genere Margaret Atwood de “Il racconto dell’ancella“… Consigliato rivedere “North Country-Storia di Josie” del 2005 di Niki Caro …

 

Women Talking ha vinto l’Oscar 2023 per la sceneggiatura non originale. È il solo premio importante andato quest’anno a un film di una regista donna, Sarah Polley (la sola in corsa nella categoria best movie), che l’ha tratto dal romanzo omonimo di Miriam Toews (Donne che parlano, pubblicato in Italia da Marcos y Marcos nel 2018).

Miriam Toews ha raccontato a più riprese nei suoi romanzi l’integralismo patriarcale della sua comunità mennonita canadese di nascita, Steinbach, nel Manitoba. L’Oscar per la sceneggiatura a Polley era annunciato da settimane, praticamente dato per scontato.

È un film decisamente letterario ed era una soluzione a buon mercato per sistemare l’arcipelago #MeToo e dintorni.
Cito un passo del libro, in prima persona collettiva: “Siamo donne senza voce. Siamo donne fuori dal tempo e dallo spazio, non parliamo nemmeno la lingua del paese in cui viviamo. Siamo mennonite senza una patria. Non abbiamo niente a cui tornare, a Molotschna perfino le bestie sono più tutelate di noi. Tutto quello che abbiamo sono i nostri sogni: per forza che siamo sognatrici”.

Servito da un cast di alto lignaggio che comprende Rooney Mara, Frances McDormand, Claire Foy e Jesse Buckley, Women Talking, che è in sala dall’8 marzo con Eagle Pictures, è una sorta di horror teatrale dell’autocoscienza che copre uno spazio di 48 ore.

Quante ne occorrono a un manipolo di donne di varia età asserragliate in un fienile per deliberare una ribellione che diventa un exodus epico. Parlo di horror perché si dà voce a una storia decennale di stupri subiti e rimossi dalla comunità religiosa: zii, fratelli, vicini e conoscenti le hanno sistematicamente narcotizzate con lo spray anestetico per le mucche, violentate e ingravidate.

Colpa dei fantasmi, ufficialmente, o di Satana. Finalmente un colpevole è stato sorpreso in flagrante e ha parlato. Molti membri della comunità sono stati arrestati, ma tutti gli altri si sono tassati per le cauzioni. Presto torneranno tutti a casa. E per decidere del proprio destino queste donne condannate in nome della Fede a servitù, botte e analfabetismo hanno una manciata di ore. Indicono un referendum: disegni al posto delle scritte, croci per votare, perché non sanno leggere e scrivere. L’alternativa è tra restare e combattere o andarsene, scappare altrove, lontano dagli uomini, con i loro bambini.

Casuali indizi rivelano che l’anno è il 2010, ma la stilizzazione algida e la fotografia seppiata ci trasportano in un’astrazione temporale metaforica, genere Margaret Atwood de Il racconto dell’ancella. È un’enclave di America arcaica.
C’entra poco, in apparenza, ma mi è accaduto in questi giorni di rivedere North Country-Storia di Josie, un film del 2005 con Charlize Theron e Frances McDormand diretto da Niki Caro.

Anche quello era tratto da un libro, Class Action: the landmark case that changed sexual harassment law, di Clara Bingham e Laura Leedy Gansler. Il libro ricostruiva il caso giudiziario “Jenson v. Eleveth Taconite Co.”, lunga vicenda processuale vinta da un gruppo di donne minatrici contro la società mineraria che negava la consuetudine di stupri, molestie e umiliazioni sessuali di ogni tipo durante il lavoro.

Il cast era pazzesco (Woody Harrelson, Jeremy Renner, Richard Jenkins, Sean Bean, Sissi Spacek..) ma non è questo il punto. Il film è tradizionale, stilisticamente, senza pretese e senza orpelli, ma ogni gesto di violenza, ogni consueto insulto rivolto alla prima minatrice che ha il coraggio di denunciare somiglia a qualcosa che hai visto o subito. È una grandinata di pugni allo stomaco. “O è pazza o è una puttana”, ovviamente.

In era pre-MeToo quel film non ha avuto uno straccio di premi, solo qualche nomination senza esito per le due attrici protagoniste. La regista neozelandese Niki Caro ha fatto Mulan per Disney un paio d’anni fa, ma per il resto si è arrabattata nel cono d’ombra. Eppure quel film è tanto, tanto più vero, universale e prezioso di Women Talking. Meno parole e più fatti, per cortesia, per fare campagna sui nostri diritti.