Quel diavolo di Pupi Avati. Ritorno all’horror con provincia (anni ’50 e democristiana)

Arriverà in sala il 22 agosto (con 01 Distributio) “Il Signor Diavolo”, il nuovo film di Pupi Avati ispirato al suo omonimo romanzo (Guanda). Un felice ritorno all’horror (sono passati oltre qurant’anni da “La casa dalle finestre che ridono”) immerso nuovamente nella provincia delle valli di Comacchio, col mondo rurale arcaico e desolato del post-dopoguerra e i sacerdoti “preconciliari” che dispensano paure senza nome dal pulpito. Qui un ragazzino ha ucciso un compaesano, Emilio, deforme e ritardato: il Diavolo, secondo lui. Da non perdere …

Oltre quarant’anni fa Pupi Avati firmava uno dei massimi capolavori della storia dell’horror d’autore, La casa dalle finestre che ridono, cult planetario ed esempio insuperato di gotico padano da brividi. A ottant’anni il maestro bolognese torna in quegli stessi luoghi – la foce del Po – e ritrova alcuni volti-chiave del suo cinema (Lino Capolicchio e Gianni Cavina in primis) per Il Signor Diavolo, gioiello nero di prepotente originalità e spessore, che fa rimpiangere la lunga assenza “televisiva” di Avati dal grande schermo.

Per insondabili logiche distributive (la ragione ufficiale è il progetto “Moviement” di rimpolpare l’offerta estiva di titoli), il film esce il 22 agosto. C’è solo da augurarsi che il passaparola lo aiuti a restare in sala fino al rientro dall’esodo vacanziero.

Mai debitore all’esterno tanto per idee che per stile – vale per le commedie come per la meno corposa produzione “di paura” – Avati attinge per Il Signor Diavolo al proprio omonimo romanzo pubblicato con Guanda. E, a dispetto della sorridente suggestione del titolo, risucchia lo spettatore in un labirinto sinistro intriso di fantasia popolare, superstizione e ipotesi soprannaturali. Ma in controluce c’è un tuffo di inquietante realismo nelle dinamiche dell’Italia anni ’50, culla delle prime e terrorifiche meditazioni del regista sul Male che impregna l’umana natura.

Teatro sono ancora una volta le valli di Comacchio, col mondo rurale arcaico e desolato del post-dopoguerra – ai tempi della grande alluvione – e i sacerdoti “preconciliari” che dispensavano paure senza nome dal pulpito. “Sono le mie memorie di chierichetto “professionista” – dice il regista – di quella paura infantile del buio associata al demonio, di certe omelie minacciose col parroco che – mi ricordo – guardava molto me. La mia piccola creatività è nata lì, sulla paura”.

A dare ali a Il Signor Diavolo c’è una molla storico-politica che sembra cronaca d’epoca. Nel 1952, l’oscuro funzionario ministeriale Furio Momenté (un perfetto, sgomento Gabriele Lo Giudice) viene inviato nel Veneto “bianco” per scongiurare uno scandalo che potrebbe pesare sul voto Dc alle elezioni imminenti. Un ragazzino ha ucciso un compaesano, Emilio, deforme e ritardato: il Diavolo, secondo lui.

La madre della vittima (Chiara Caselli) – per tutti solo “la Signora” – è una potenza locale che al processo minaccia di tradire il partito che attivamente supporta, accreditando l’immagine di una Chiesa di pratiche e propaganda oscurantiste. Perché a imbeccare il dodicenne Carlo è stato il grumo nero di pregiudizi e dicerie assorbiti dal sagrestano Gianni Cavina, titolare del catechismo, e da una conversa malevola. Il mandato del governo degasperiano è tassativo: nessun religioso deve salire sul banco dei testimoni.

Ma la “mission” si trasformerà in un’indagine che presto diventerà scomoda per i mandanti e a rischio per il funzionario: è quasi un bis delle insidie in agguato per il restauratore Capolicchio tra le macabre sacralità della Casa… Quello di Avati – che spara a inizio film la visione raccapricciante di una neonata sbranata in culla da un essere con mostruose zanne suine – è un viaggio incredibilmente provocatorio nelle pieghe tetre di un’Italia non tanto remota. E la provocazione, lucida quanto impietosa, viene da un autore che per decenni ha subito l’ostracismo insistente della Sinistra.

Come ricorda una battuta del film, nella cultura contadina (cattolica) il “diverso” viene associato al Demonio, e l’iconografia medievale associa il Diavolo al verro, il maiale maschio. Il sacrilegio di un’ostia sputata per colpa del “malvagio” ragazzo-verro, e calpestata, scatena eventi luttuosi, esorcismi a base di urina e fiamme, depistaggi e misteri, in un crescendo di ambiguità magistrali che il finale – cambiato in corsa e top secret – suggella.

Scusate il calembour, ma se è vero che “il Diavolo è nei dettagli”, è proprio la maniacalità – mai superflua – dei dettagli a rendere unico Pupi Avati, insieme al suo senso profondo, “terragno”, delle proprie radici e a una direzione di attori che non somiglia a nessuna, perfino in certe sue prove zuccherose e “minori”. Ricordo solo che due serie come Jazz Band e Cinema! sono state una rivoluzione assoluta nella tv anni ’70. Finirà cestinato l’ultimo sogno del Nostro, un biopic seriale su Dante Alighieri?

In controtendenza, come è suo ostinato costume, il nostro jazzista mancato (in squadra col fratello Antonio, qui anche co-sceneggiatore con Tommaso Avati) oggi ridà smalto autorale al cinema di genere, quello che “aveva reso fortissimo il cinema italiano”. I sei “no” incassati dalla distribuzione – prima dell’approdo a Rai Cinema – gli danno ragione: “Oggi si accettano solo commedie e commedie, interpretate dalla stessa “panchina corta di attori”.

È un vezzo la culla insanguinata del manifesto, parente di quella nera – non meno infernale – di Rosemary’s baby? Anche sì: il film di Polanski – non era difficile intuirlo – è tra i primi dieci del suo Palmarès personale.

fonte Huffington Post