Ritorno al futuro con Glauber Rocha. Il cinema dell’utopia per cambiare il presente nel doc di César Meneghetti

Presentato in anteprima mondiale alla Festa di Roma, “Glauber, Claro” film di César Meneghetti, regista e video artista di  origini brasiliane. Un ritorno alla Roma di Glauber Rocha a 45 anni anni di distanza dal suo film, “Claro” girato nella capitale. Un omaggio ad un grande visionario del cinema mondiale, ma anche una riflessione sulla “meglio gioventù” dei Settanta e sull’utopia necessaria da trasmettere alle nuove generazioni. Da non perdere (qui il link a pagamento) …

È un raffinato gioco di specchi. Meglio, un passaggio di testimone tra Glauber Rocha nella Roma dei ’70 e le nuove generazioni (possibilmente), attraverso lo sguardo luminoso di César Meneghetti, regista e video artista che col leggendario autore brasiliano ha in comune non solo la terra di nascita, ma anche un percorso artistico nomade (22 anni a Roma poi Londra, Berlino, Africa, Asia), militante e di ricerca.

Covato e accarezzato per quasi trent’anni come il progetto della vita, come si fa omaggiando un padre spirituale, Glauber, Claro – presentato alla Festa di Roma – è il racconto di un ritorno al futuro, quello che il visionario esponente del Cinema Novo brasiliano ha tracciato quarantacinque anni fa, una volta arrivato a Roma (dove ha vissuto tra il ’70 e il ’76) sfuggendo alla dittatura.

Era il ’75, infatti, quando Rocha gira Claro, suo penultimo lungometraggio e prosecuzione coerente di quel suo percorso artistico (Dio nero, il diavolo biondo o Terra in trance, i suoi titoli più celebri) incentrato su una visione tutta politica del mondo e quindi del suo cinema, che qui sceglie Roma come simbolo stesso dell’oppressione dell’imperialismo da combattere e da abbattere. Con la cinepresa imbracciata a mo’ di fucile, come si diceva allora, “ma che già allora faceva un po’ ridere” ricorda sorridente Marco Bellocchio, tra i tanti amici testimoni chiamati a raccolta da César Meneghetti per ricordare.

Claro è cinema underground, sperimentale, visionario dove alla bella Juliet Berto, icona della Nouvelle Vague, che si rotola per le vie capitoline sotto lo sguardo attonito dei turisti, si alternano la denuncia del colonialismo, il potere del denaro e lo sfruttamento degli ultimi con Carmelo Bene che declama in abiti femminili.

Cartoline da Roma, insomma, di un autore militante di cui César Meneghetti, ritrova gli stessi luoghi, gli scenari, mettendo in sequenza ieri e oggi, come in un gioco di specchi – l’abbiamo detto – col gusto raffinato dello sperimentatore che raddoppia l’immagine, la decolora, la sovraespone. Alla ricerca dei segnali o dei segni che tengano insieme queste due epoche apparentemente così lontane.

Lo sintetizza bene Adriano Aprà, decano dei critici cinematografici, l’umore dei Settanta. Di “quella” Roma, soprattutto, fatta di teatro di avanguardia, musica, sperimentazioni, creatività, di cenacoli artistici (ricorda Roberto Silvestri). Lo stesso di Moravia, per esempio, che riuniva Pasolini, Bertolucci, Fellini e a cui Rocha è subito arrivato, come anche Godard.

Quella meglio gioventù (di cui ascoltiamo i ricordi di Roberto Perpignani, Bruno Torri) di allora, forte di creatività e bella politica, che è stata poi spazzata via – ed è sempre Aprà a sottolinearlo – “dal terrorismo e dall’eroina”. Nel vuoto spinto del nostro presente, almeno apparente, l’obiettivo di Meneghetti è lì ad indagare (come ha fatto per anni firmando in coppia con Elisabetta Pandimiglio, coinvolta anche in questo film, tanto cinema del reale). La folla riunita a San Pietro davanti a Francesco, una manifestazione di giovanissimi che rivendicano il loro diritto al futuro contro le politiche di sfruttamento selvaggio del pianeta.

Piccoli segnali forse. Come quelli che lo stesso Adriano Aprà sta raccogliendo nel cinema, attraverso la sua rassegna Fuorinorma, dedicata appunto al cinema “neosperimentale” italiano che pure esiste. E che Glauber, Claro ci conferma. Ricordandoci l’importanza dell’utopia soprattutto, consegnando alle nuove generazioni il testimone, impugnato fino all’ultimo, da un grande visionario troppo presto dimenticato.