Ritratto d’artista spudorato. Giuseppe Patroni Griffi doc

In onda il 6 maggio (su Sky Arte, ore 22.30. E alle 18 al festival di Sky Arte a Napoli) “Metti, una sera a cena con Peppino” di Antonio Castaldo, documentario dedicato al grande scrittore, autore, regista e molto altro. Un ritratto variabile che non si impiglia in un racconto biografico ordinato, piuttosto naviga a vista, approdando con felici intuizioni nei punti/porti giusti. Quelli che dicono di un artista trasgressivo, o meglio – come si definiva Peppino stesso – “spudorato”, coi soli “limiti del buon gusto”…

Luchino Vsconti e Giuseppe Patroni Griffi

A distanza di quasi un secolo dalla nascita (era il 27 febbraio 1921), Giuseppe Patroni Griffi riappare sugli schermi grazie all’omaggio di Antonio Castaldo, che gli ha dedicato un documentario a più voci, Metti, una sera a cena con Peppino.

Troppo giovane per averne seguito da vicino la parabola di scrittore, autore, regista e molto altro, ma con la sensibilità giusta per intercettarne gli umori essenziali, Castaldo riesce a riassumere in un’ora il ritratto variabile di un artista trasgressivo, o meglio – come si definiva Peppino stesso – “spudorato”, coi soli “limiti del buon gusto”.

Uno verace, dal pensiero indipendente e di ispirazione spontanea. Napoletanissimo, fino alle viscere come lo ricorda Massimo Ranieri. Alla sua città, stravolta dalla guerra e “stupefatta dalle bombe”, Patroni Griffi dedicò il suo romanzo più intenso, La morte della bellezza, e spavaldo insieme.

La Napoli palpitante, a cui Peppino – pur essendo emigrato a Roma – rimase visceralmente legato e dove aveva respirato i primi fermenti culturali assieme agli amici di via Chiaja, tra cui lo scrittore Raffaele La Capria, Francesco Rosi e un insospettabile futuro presidente della Repubblica, il giovanissimo Giorgio Napolitano, che in quegli anni universitari si occupava di teatro e che ne ricorda le attività dichiarate (letture, spettacoli) e quelle clandestine (discussioni politiche o magari l’ascolto di musica “sovversiva” come il jazz americano).

Il documentario di Castaldo non si impiglia in un racconto biografico ordinato, piuttosto naviga a vista, approdando con felici intuizioni nei punti/porti giusti. A cominciare da una tavola imbandita lentamente, con gesti quasi liturgici, che incornicia aprendo e chiudendo il ritratto e fa da bussola al viaggio intorno alla personalità di Patroni Griffi. La tavola come luogo più importante della sua giornata, dove riunirsi, discutere. Dove nascevano le sue regie e la scelta dei cast, mentre i romanzi erano una roba interiore, disseminata con appunti sul retro dei pacchetti di sigarette.

A tavola come Artù e i suoi cavalieri, la fede tenace nel gruppo, nell’amicizia che per Patroni Griffi – ricorda Franca Valeri – “era una disciplina morale, profonda, necessaria”. Un sentimento puro ed esclusivo che diventava in lui “combattivo e settario”, che ha permeato tutta la sua opera.

Metti, una sera a cena – richiamato nel titolo del documentario –  è difatti la più icastica e celebre delle sue commedie, costruita su misura di quella Compagnia dei Giovani (Lullo, Falk, Valli, Guarnieri) per i quali Patroni Griffi collaborò strettamente negli anni romani. Esempio chiaro della trasversalità del suo ingegno, passata dalla scena al set con disinvoltura e diventata lezione di poetica personale.

Sovvertitore di ordini costituiti – nella morale come nell’arte – il regista napoletano ha attraversato la scena culturale con passo spavaldo, prendendo le mosse da sotto l’ombra paterna e protettiva di Luchino Visconti. “Il tentativo di scavalcamento dell’ordine di Visconti si trasforma in tentativo di eversione”, commenta acutamente il drammaturgo Ruggero Cappuccio. L’ “anarchico” per eccellenza – come lo definisce l’amico della prima ora, lo scrittore Raffaele La Capria – dichiarerà in tv che “la trasgressione dà caldo”. Senza scadere mai nella platealità.

Come il suo essere omosessuale. In modo spontaneo, naturale, in tempi bacchettonissimi per l’Italia di allora. Forse per questo, rimase in penombra uno dei suoi racconti più vibranti, Scende giù per Toledo (1975), storia senza pelle di un femminiello, Rosalinda Sprint, riportata in anni recenti in uno struggente allestimento teatrale, suggerito per pochi, significativi fotogrammi dal documentario.

Fra testimonianze di attori, da Kaspar Capparoni a Ranieri che si proclama creatura teatrale di Peppino-Geppetto, ai collaboratori stretti come Vittorio Storaro, gli amici produttori da Marina Cicogna e Andrea Andermann, l’omaggio di Castaldo si accende di verità perdurante con assaggi di altre immagini – tra cui l’estenuata bellezza di Fratello crudele con Schneider e Delon, i bianchi e neri del teatro della Compagnia dei Giovani e, ancora, le abbaglianti, audaci regie liriche in mondovisione di Tosca nei luoghi e nelle ore di Tosca e Traviata a Parigi che furono una delle ultime sfide vinte da Patroni Griffi.

Un ritratto leggero come una brezza, accompagnato dalle canzoni napoletane acquarellate al piano e voce da Cinzia Gangarella e da pennellate di cartoon (animazioni di Francesco Di Pietro) che trasformano Peppino in personaggio da fumetto e lo avrebbero fatto sorridere e sognare. Aprendo la sua eredità alle generazioni che non hanno avuto la fortuna di incontrarlo e conoscerlo.