Se “Anna” è soltanto la fine del mondo. Ammaniti ridisegna l’immaginario post-catastrofe

A proposito della già celebrata serie Sky, “Anna” diretta dallo stesso autore del romanzo del 2015 da cui è tratta: Niccolò Ammanniti. La storia la conoscete tutti, una pandemia ha cancellato dalla terra gli adulti, ormai popolata solo dai ragazzini. Eppure non è il plot narrativo il punto centrale, quanto piuttosto la costruzione di un nuovo immaginario che ne mette insieme tanti altri: da Michelangelo Pistoletto a Mattia Preti, dal “Mago di Oz” al “Signore delle mosche”. Questo mondo non salvato dai ragazzini appare come un magazzino scenico cupamente sfavillante e ricchissimo. Ed è proprio questa iconografia che sembra destinata a fondare un nuovo filone nella serialità italiana affacciata sui mercati mondiali …

Sei mesi prima dell’attacco alle Torri gemelle a New York Salman Rushdie aveva consegnato al suo editore il suo nuovo romanzo. Si intitolava Furia. Tra i personaggi del libro un esule islamico dell’Europa dell’Est. Un laico che partecipava però dei sentimenti del suo popolo e che a un certo punto si interrogava, in pagine durissime, sul sentimento di stupore degli americani davanti all’odio che essi suscitavano nelle culture diverse.

Ma come? Proprio loro che erano così buoni passavano agli occhi di mezzo mondo per cattivi. Questo personaggio cercava di spiegare perché invece erano davvero cattivi e perché si sarebbero dovuto aspettare che (la citazione non è letterale) le “nostre navi abbatteranno le vostre torri in fiamme”. L’attentato spinse Rushdie a bloccare l’uscita del libro: piuttosto che autocensurarsi scelte di perdere un anno di tempo.

Esce invece in piena pandemia, sugli schermi di Sky, Anna, una miniserie (sei puntate di un’ora ciascuna e credo che sia alle viste la seconda stagione) che parla di una micidiale pandemia che ha ucciso tutti gli adulti. Nessuna scelta speculativa e neppure un instant movie: la serie è tratta da un libro del 2015 e l’inizio delle riprese è avvenuto sei mesi prima dell’arrivo della Sars Cov 2, il virus del Covid 19.

La scelta di farla uscire comunque credo sia giusta: non aiuterà certo a placare le ansie e le paure che questo anno e mezzo ci ha creato ma non è questo che chiediamo ad una creazione artistica. E in più non crediamo che questa serie finirà per amplificare le nostre ansie: sarebbe così se l’approccio di Niccolò Ammanniti (autore e regista di Anna) fosse stato quello di un cupo realismo. Ma non è questa la chiave che, mi pare, invece sia quella di una fiammeggiante fantasia visiva fatta di una serie colta di citazioni, di rimandi: un immaginario costruito da molti immaginari.

La storia l’avrete letta tutti: Anna è una bambina alle soglie della pubertà, Astor è suo fratello piccolo, vivono in una isolata villa di famiglia in mezzo a un bosco nella Sicilia della post-catastrofe. La serie oscilla tra flashback che arrivano dal passato, quando i “grandi” c’erano ancora e quando hanno cominciato ad ammalarsi, e il presente quando il mondo ormai appartiene solo ai ragazzini.

La malattia si chiama “la Rossa” e somiglia alla “Maschera della morte Rossa” di Edgard Allan Poe, una sorta di peste bubbonica che al posto di far venire le macchie nere fa comparire dei fiori rosso sangue sulla pelle degli adulti. E i bambini? Anche i bambini hanno la Rossa ma è silente, arriverà solo quando cominceranno a crescere.

Il virus è come una soglia che non si supererà mai. Uno dei protagonisti ad un certo punto dirà una cosa molto bella: “mi piacciono i cani, vivono 14 anni come noi, poi se ne vanno”. I bambini vivono sempre (anche senza il virus) 14 anni, poi diventano un’altra cosa e per gli adulti anche questo rappresenta una perdita.

La cosa che interessa soprattutto Ammanniti è raccontare come questi bambini abbiano costruito i loro rapporti sociali in questo mondo senza adulti e, aggiungiamo, senza speranza perché non nasce più nessuno e in capo a 14 anni, appunto, non ci sarà più nessuno.

Dovendo scegliere tra il mito del “buon selvaggio” roussoviano, quello che vorrebbe ogni creatura fondamentalmente buona e vocata al bene prima della costituzione di rapporti sociali, e quello hobbesiano dell’”Homo homini lupus” (con tutte le sue radici romane e medievali) sceglie il secondo.

La grande catastrofe pandemica non ha determinato una maggiore solidarietà, al contrario un assortimento di avidità e violenza. Un mondo fatto dai Blu, una tribù guidata da quasi-adulti e da una sorta di regina che schiavizzano i più piccoli per razziare e dominare, che hanno catturato e tengono prigioniera, l’unica scampata al male, facendone quasi una divinità.

Ci sono i due fratelli gemelli asserragliati nel magazzino pieno di merci che trasformano questa loro ridicola ricchezza in occasione di dominio e assassinio, divenendo quasi dei serial killer. C’è la piccola banda di balordi che affermano il loro potere inutile dichiarandosi i padroni dell’Etna e vessando chiunque provi ad avvicinarsi alla montagna.

Poi c’è Anna, il fratellino Astor, Pietro, il ragazzo che Anna incontra e che vive ai bordi di un paradisiaco laghetto: in loro l’umanità c’è ancora, c’è ancora amore, forse perché a guidare Anna c’è il “libro delle cose importanti” lasciato in eredità dalla madre morente, forse perché hanno fatto della solitudine, del rifiuto di associarsi alle tribù il loro stile di vita. E la storia è il racconto di una fuga (impossibile?) alla ricerca di una salvezza che sta al di là del mare, sul “continente”.

Le prove di questi piccoli attori, praticamente tutti all’esordio (ma anche quelle degli adulti che si affacciano nel flashback) sono straordinariamente convincenti.

Ma – mi pare – non è il plot narrativo il punto centrale. Il cuore è proprio quell’immaginario visivo di cui parlavo, la costruzione di nuovi “topoi”, un po’ apocalittici ma anche molto iconici e cinematografici. Questo mondo che ormai da anni vive senza adulti, senza luce elettrica, senz’acqua, senza mezzi di trasporto, senza regole, somiglia a una gigantesca discarica: tutto è rapidissimamente logorato, le strade vuote sono spaccate dalle erbacce e dalle carcasse delle auto, le case abbandonate e saccheggiare sono colme di confusione e rifiuti, la strabiliante villa in cui sono asserragliati i Blu ha i pavimenti coperti di stracci colorati.

Qui la confusione assume l’aspetto di un’istallazione di Michelangelo Pistoletto, i muri luridi sembrano imbrattati da Jackson Pollock, i blu che si immergono nelle vasche colorate fanno pensare alle performance di body painting. Certe scene di massa, così confuse e apocalittiche sembrano calcate sui quadri di Mattia Preti e il suo tardo barocco meridionale.

Ma poi qua e là emergono citazioni filmiche, dal Mago di Oz con il suo uomo di latta o addirittura dalla Grande Bellezza o da altre opere di Sorrentino in cui inaspettatamente e del tutto fuori contesto emergono animali come presenze simboliche. All’estetica cupa dell’immaginario post catastrofico di Cormac McCarthy (vi ricordate il modo grigio di La strada), si sceglie un clima disperato, concitato e colorato che rimanda a The Walking Dead.

Il paragone che mi è subito venuto in mente guardando Anna è quello con Il signore delle mosche, di William Golding. Un libro degli anni Cinquanta (divenuto poi anche un film firmato da Petr Brooke e successivamente replicato). Lì si raccontava di un gruppo di ragazzini inglesi di buona famiglia naufragati su un’isola deserta e divenuti presto una piccola società basata sulla violenza e sulla paura, sul dominio di alcuni, sulla lotta per affermarsi, sulla costruzione di una mitologia e quasi di una religione. Golding sosteneva che “l’uomo secerne il male come le api il miele”. Il libro era una metafora arcigna e conservatrice in anni di guerra fredda e di paura nucleare in cui non vi è altra struttura sociale che quella della sopraffazione.

Nicolò Ammanniti ripercorre questa strada senza però avere una morale da darci. Lo scrittore e regista ha una particolare capacità nel raccontare l’universo e l’immaginario dei bambini (d’altra parte è figlio del nostro più affermato studioso della psiche dell’età evolutiva) con le sue paure e i suoi slanci.

Mettere alla prova i piccoli in un mondo senza grandi è moltiplicare per mille questa tensione, farlo usando come catastrofe una pandemia in piena pandemia rende questa materia ancora più esplosiva. Ci è riuscito? Fatico a dare una risposta. Dal punto di vista della profondità dell’analisi e della rappresentazione di questo mondo doloroso e di questo inestricabile miscuglio di infantili sentimenti e di disperata mancanza di futuro Anna non è una operazione narrativa compiuta.

Da quello di una “estetica” del mondo non salvato dai ragazzini invece appare come un magazzino scenico cupamente sfavillante e ricchissimo. E, forse, proprio la fondazione di questa iconografia di questo immaginario era l’obiettivo di questa creazione che, comunque la si voglia giudicare, sembra destinata a fondare un nuovo filone nella serialità italiana affacciata sui mercati mondiali, aggiungendo Anna a titoli come Gomorra o The Young Pope.