Se London sbarca a Napoli. La battaglia incerta del Martin Eden di Pietro Marcello

Passato il secondo italiano del concorso a Venezia 76, “Martin Eden” di Pietro Marcello, libero adattamento dall’omonimo capolavoro di Jack London. Trasportato a Napoli con Luca Marinelli protagonista, il film manca di alcuni passaggi capaci di rendere il percorso esistenziale del marinaio, della sua ascesa e caduta. Mentre sono i personaggi secondari a condurre la storia senza scene madri, rigidità e categorie astratte. Jack London è un gigante nord americano. E i giganti nord americani sono abituati agli spazi enormi, maestosi e selvaggi, perché soltanto grazie a luoghi simili è possibile venerare le loro divinità: l’energia, la vitalità e la libertà. Il film sarà in sala dal 4 settembre con 01 Distribution …

Jack London è un gigante, lo è stato in vita, durante la sua breve, intensa e rocambolesca vita, e lo è ancora adesso, da morto, grazie ai suoi lavori. Di più, Jack London è un gigante nord americano. E i giganti nord americani sono abituati agli spazi enormi, la loro è una mitologia legata a paesaggi maestosi e selvaggi, perché soltanto grazie a luoghi simili è possibile venerare le loro divinità: l’energia, la vitalità e la libertà.

Quando ho letto che Pietro Marcello aveva realizzato un adattamento di Martin Eden, trasportando le vicende narrate a Napoli, la mia prima reazione è stata di ammirazione. Infatti ci vuole coraggio a confrontarsi con i giganti, ci vogliono fiducia in se stessi e coraggio.

La mia seconda reazione è stata di incredulità. Perché, tra tutte le opere di London scegliere proprio Martin Eden? Perché scegliere il romanzo più autobiografico di London, quello maggiormente legato al periodo storico in cui venne composto per poi trasportalo a Napoli? Devo essere sincero: arrivato alla fine della visione del film, queste domande restano senza risposta.

Martin Eden, interpretato da Luca Marinelli, è un giovane marinaio che dopo essere entrato in contatto con una famiglia dell’alta società, rimanendone affascinato sia da un punto di vista estetico che intellettuale, si pone l’ambizioso obiettivo di riuscire, un giorno, a farne parte.

È il racconto della scoperta della cultura, della gioia dell’apprendere cose nuove, ma è anche il racconto di un ascesa sociale, e della scoperta che il pericolo maggiore, quando si sogna disperatamente qualcosa, non è quello di non riuscire a concretizzare il proprio sogno, ma di raggiungerlo e di scoprirlo vuoto, insoddisfacente, inutile.

“Una sera, ho fatto sedere la Bellezza sulle mie ginocchia. – E l’ho trovata amara. – E l’ho insultata”. Al genio di Rimbaud, con la densità concessa soltanto ai geni, bastarono poche parole per descrivere perfettamente la disillusione. Quel tipo di disillusione esistenziale a cui si può reagire o con la rabbia, oppure con l’abbandono, con lo spreco di sé.

Parabola di un’ascesa e di una caduta quella di Martin Eden, di un’ascesa e di una caduta entrambe volontarie, emanazione diretta del potere dell’individuo quando è libero e deciso e al tempo stesso dolorosa dimostrazione di insufficienza: che senso ha infatti diventare se stessi se la maggior parte degli altri resta schiava dei padroni sbagliati?

Il Martin Eden di Pietro Marcello mi è sembrato mancare di alcuni passaggi in grado di giustificare appieno l’ambizione a far parte di un certo tipo di società prima, e il successivo rifiuto, categorico e disperato poi. L’amore per Elena (Jessica Cressy), la figlia della famiglia altolocata con cui Martin entra in contatto, idilliaco e stimolante in principio, pur occupando una buona parte della vicenda, arriva a deragliare in modo meccanico, imposto.

Stesso problema nei rapporti, conflittuali, che Martin ha sia con i socialisti che con i liberali. Sono momenti poco naturali, come se Marcello si fosse sentito obbligato a trattarli. Allo stesso modo l’amicizia tra Martin e il vecchio Russ Brissenden (Carlo Cecchi), che nel libro include una serata trascorsa in compagnia di filosofi che Martin definirà come “la migliore della sua vita”, nel film appare brusca e poco convincente.

L’inserimento di materiali d’archivio, utilizzati come punteggiatura, sottolinea una delle caratteristiche a mio avviso più problematiche del film: nonostante i molti dialoghi si ha l’impressione che non si sia detto abbastanza, o meglio, che il non detto abbia giocato un ruolo maggiore; nonostante la lunga durata e le molte scene, si termina la visione coltivando il sospetto di non aver visto le parti davvero importanti, che altrove, forse attorno ad alcuni dei personaggi minori, a mio avviso i più riusciti, si stesse davvero svolgendo la vera storia, quella senza S maiuscola, senza scene madri e senza personaggi incaricati di impersonare categorie rigide e stratte.

Ma per meglio celebrare Jack London e il tentativo coraggioso anche se non del tutto riuscito di Pietro Marcello, forse conviene rivolgersi ad un altro gigante, più appartato e meno appariscente. Così Jorge Louis Borges: “Jack London morì a quarant’anni ed esaurì fino alla feccia la vita del corpo e quella dello spirito. Nessuna delle due lo soddisfece del tutto, e cercò nella morte il tetro splendore del nulla”.