Tra gli ultras per leggere la rabbia del mondo. Daniele Segre ripensa il potere bianconero
“Ragazzi di stadio, 40 anni dopo” di Daniele Segre in tour. Il 7 ottobre a Perugia al Socialfilmfest, il 16 ottobre a Torino (Cinema due giardini), il 23 ottobre a Milano (cinema Beltrade), il 25 ottobre a L’Aquila (palazzetto dei nobili), il 4 novembre a Bologna (cinema Europa). Quasi un sequel dei precedenti doc (più libro fotografico) che indagavano l’universo dei supporter juventini. Quel mondo che è spesso anticipo di quel che avviene e sta maturando fuori da quei cancelli. Presentato al Torino filmfest…
Lasciarli parlare. Lasciare che si raccontino. Loro, i protagonisti. Le domande, se ci sono, restano fuori, magari tagliate in fase di montaggio. Un’auto-narrazione, insomma. Messa a confronto con le parole e le immagini di chi li ha preceduti. Operazione rischiosa ma interessante. Certo non esaustiva ma interessante.
Tanto più che si parla del mondo ultras. Meglio, ad essere più precisi: di un pezzo – pezzo piccolo o grande, fate voi – del mondo ultras. Mondo che riempie cronache e titoli di tutti i giornali, reazionari e progressisti, visto che ormai, tranne qualche irriducibile, tutti sono stati costretti a riconoscere che ciò che avviene “nel e attorno” al calcio è semplicemente il riflesso di quel che avviene fuori. Riflesso e molto più spesso anticipo di quel che avviene e sta maturando fuori da quei cancelli. L’hanno compreso tutti; ma tutti, lo stesso, continuano a parlarne con una superficialità disarmante.
Ecco perché il film (ma perché non chiamarlo col suo nome? il documentario) di Daniele Segre, Ragazzi di stadio, 40 anni dopo non è certo destinato solo ad appassionati. È molto di più. Innanzitutto è una storia, nientemeno che un sequel: è la ripresa, l’attualizzazione – se si dice così – di due suoi vecchi lungometraggi che indagano l’universo dei supporter juventini. Il potere deve essere bianconero del ‘77 e Ragazzi di stadio, di tre anni dopo, con successivo libro fotografico (Mazzotta). Film e foto che sono citati e ripresi in quest’ultima opera. Che mette a confronto due ere, politiche, culturali, sociali.
E ci sono anche diversi protagonisti di quell’antica stagione. Un po’ ammuffiti, un po’ reduci, raccontano di come le parole d’ordine che allora era egemonini nella cultura giovanile si riverberassero nei primi tentativi di organizzazione degli ultras. Ultras juventini, vale la pena ricordarlo – e lo ammettono gli stessi capi del settore – che nascono molto, ma molto dopo. Quasi ad imitazione delle altre curve. Nascono dopo gli ultras granata, per dirne una. Comunque, si arriva così al “potere bianconero”, sulle note di un noto slogan dell’autonomia operaia dell’epoca. Accompagnato nelle foto sbiadite dalle tre dita alzate a simboleggiare la P38.
E c’è l’oggi, invece, dove c’è il responsabile “lancia cori” dei Drughi – il gruppo ormai egemone nella curva sud torinese, gruppo comunque piuttosto recente: l’omonimo striscione fece la sua prima comparsa solo nell’ottobre dell’88 – che ammette che sì, la loro cultura è di destra. “Del resto è una cultura importante nella storia di questo paese”. Sono di destra, ma, insomma, – aggiunge – viene prima la Juventus.
E c’è poi un altro signore, reduce ma ancora attivo in curva, che parla davanti alla cinepresa, con una svastica al collo e una felpa con su scritto “Me ne frego”. Si vede che vuole mostrarsi provocatore ma la parte non gli si addice molto.
Segre non indugia su questi aspetti. Si limita a mostrarli in sequenza. Ma – si faccia attenzione – tutto ciò non è un limite. Anzi. È come se il regista avesse introiettato – o almeno così sembra – la lezione, le tante lezioni di Valerio Marchi, scomparso – appena 51enne – pochi anni fa. Un sociologo, un intellettuale, un militante antifascista che non si è limitato ad indagare le sottoculture giovanili. Ma le viveva in prima persona, da ultras romanista, da “militante di strada e nei bar”. Raccontando come quello che i media main stream descrivono come “armamentario simbolico della destra” in realtà era ed è molto di più, e di più complesso: era ed è la ribellione dei subalterni.
E nel film di Segre questo lo si intuisce. Più che nel racconto, a tratti involontariamente umoristico, dell’organizzazione ultragerarchizzata e maschile dei Drughi (in tutto il film non parla alcuna ragazza), lo si legge nei brevissimi accenni autobiografici che qualche intervistato si lascia sfuggire. Ci sono le parole di quel ragazzo che dice che “il gruppo c’è quando uno si sente solo”, nelle tante giornate torinesi nelle quali si sente solo. E per lui conta solo questo. C’è nelle parole del “responsabile delle trasferte” che dice che lì, nel secondo anello del nuovo stadio, si “sente vivo”. Non ha altre occasioni per sentirsi così.
C’è il loro sistema di valori, fatto di ordine, disciplina ma anche solidarietà, fatto di aggressività ma anche rispetto. Un mix non etichettabile. Semplicemente da indagare.
Certo, non ci sono tante cose. Né, probabilmente, potevano esserci. Nessuno di loro parla, e nessuno li sollecita, delle infiltrazioni camorristiche dentro la curva juventina, sancite dalle inchieste dell’anti-mafia. Nessuno di loro parla del misterioso suicidio di Raffaello Bucci, storico leader della tifoseria bianconera, suicida il giorno dopo essere stato interrogato dal giudice sui rapporti fra la criminalità e il bagarinaggio.
I protagonisti dicono altre cose però. Un po’ en passant ma si notano lo stesso. La prima: le parole di un vecchio capo tifoso che racconta quanto fossero odiati i supporter bianconeri negli stadi d’Italia. Lo dice con un pizzico di orgoglio ma anche molta presunzione. Anche qui, chi si occupa di – e si appassiona al – calcio e storie di tifosi sa di che si parla. E sa che i sostenitori della squadra degli Agnelli sono quasi sempre stati solo derisi negli stadi italiani (in Europa è un’altra storia). Derisi. Esattamente come si faceva alle elementari con quei compagni, che non potevano andare allo stadio perché i genitori non volevano e allora tifavano Juve, Milan, Inter perché vincevano sempre.
L’odio c’era (e c’è ancora, magari anche in chi scrive): ma era solo per il club, per l’arroganza dei suoi dirigenti, per l’arbitrio che spesso ha sfiorato l’illegalità che hanno imposto al calcio italiano.
L’altra frase è dell’ennesimo protagonista. Frase quasi nascosta, rilevante però. Racconta che i Drughi per una brevissima stagione si chiamavano “Arancia Meccanica”. Poi aggiunge: “Ci hanno fatto cambiar nome”. Chi? Dove? Perché? Un gruppo ultras eterodiretto? Il film non lo spiega. C’è ancora tanto da capire, insomma, su questo mondo.
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