Troisi ritorna a Napoli. La mostra sul comico dei sentimenti “ricomincia da tre” a Castel dell’Ovo
Approda a Napoli, dopo la prima romana nel 2019, la mostra “Troisi poeta Massimo,“, “passeggiata poetica” realizzata dall’Istituto Luce Cinecittà e il Comune di Napoli dedicata al comico dei sentimenti scomparso 26 anni fa. Un percorso multimediale ricco di cimeli, fotografie di scena, interviste e carteggi inediti per rivivere la folgorante parabola artistica di un genius loci autodidatta che, dagli esperimenti di gioventù al Centro Teatro Spazio, si è fatto amare dal grande pubblico col cabaret rivoluzionario del trio La Smorfia fino al suo cinema lucidamente antieroico da Oscar. Un excursus nella fantasia di un “poeta Massimo” per cui è impossibile non emozionarsi…
Come quel beniamino antieroico di Gaetano emigrato al nord negli anni ‘80, “ricomincia da tre” anche Troisi poeta Massimo, la mostra multimediale organizzata da Istituto Luce Cinecittà e Comune di Napoli dedicata al rivoluzionario comico dei sentimenti di San Giorgio a Cremano scomparso prematuramente 26 anni fa.
Al terzo colpo, infatti, dopo le due inaugurazioni tentate (e sventate) nella giostra di Dpcm dei mesi passati, finalmente approda anche nel golfo partenopeo (dopo la prima a Roma nel 2019) l’esposizione poetica e intimista a cura di Nevio De Pascalis e Marco Dionisi e con la supervisione speciale di Stefano Veneruso (regista e nipote di Troisi), mostra che sarà ospitata nelle stanze del Castel dell’Ovo fino al 25 luglio.
Si tratta di un percorso dall’atmosfera quasi casalinga, una passeggiata nelle stanze della parabola Troisi che attraverso cimeli, fotografie di scena, interviste e carteggi inediti, tenta di ripercorrere la folgorante cavalcata artistica di un genius loci crepuscolare e periferico, un anarchico gentile, un po’ Pulcinella smascherato, un po’ Pierrot, che s’è fatto interprete di stupori generazionali e sentimenti condivisi.
Dalla gigantografia di benvenuto scattata da Pino Settanni, si attraversano i luoghi dell’infanzia dell’eterno ragazzo di San Giorgio a Cremano nato a Palazz’e Bruno ‘mmiez’ ‘e Tarall, quello slargo (oggi ribattezzato Piazza Massimo Troisi) dove il “robusto poppante Mellin”, scelto all’epoca come testimonial del latte in polvere, muove i primissimi passi avvolto dal calore di un affollato focolare domestico.
Quattro stanze da 16 persone che erano un antidoto a quei suoi “violenti attacchi di solitudine”, un parco giochi di capriole e mascherate dove ritagliarsi uno spazio fisico personale richiedeva lo sforzo fantasioso della sua penna, che fermava su stracci di carta scarabocchiati “pensieri poetanti” rivolti al suo “cuore malandato”.
Pensieri raccolti ed esposti per la prima volta pubblicamente nelle teche della mostra, insieme agli antichi ritratti di famiglia – dove presto verrà a mancare mamma Elena, rendendolo “orfano a vita” –, agli scatti sul campetto da calcio paesano a testimoniare la passione per il pallone (stroncata sul nascere dai problemi cardiaci che lo segneranno per sempre) e alle prime foto sbiadite in scena al Centro Teatro Spazio, il luogo dove tutto ebbe inizio.
Scatti che lo ritraggono durante le prove del censuratissimo Crocifissioni d’oggi (1973) insieme a Lello Arena, Pino Calabrese e Peppe Borrelli in quell’angusto garage di Via San Giorgio Vecchio 31, una fucina di talenti in erba allestita a mo’ di teatrino indipendente dove far confluire scrittura, marionette e politica tra farse, “scarpettiane” e cabaret.
È lì infatti che Troisi inizia a battere la strada ignota e infedele di un’avanguardia del pensiero artigianale e rivoluzionaria col suo gruppo Rh-negativo, inventandosi un modo di far spettacolo sperimentale e ingegnosamente alternativo alla militanza del ’68, dove raccontare di lotte operaie, di droga, di migrazione e di disoccupazione giovanile da una pedana di fortuna avvolto nella sua inseparabile calzamaglia nera (che sua sorella Rosaria rammendava grossolanamente a ogni messa in scena).
Poi gli stralci di giornale incorniciati a documentare l’esordio fulminante del trio indipendente Decaro-Arena-Troisi, I Saraceni (dopo ribattezzati La Smorfia) ingaggiati al Teatro Sancarluccio e poi ospitati nel ’77 a La Chanson romana dove sbancano con Non si ride di solo pane, fino all’approdo in Rai, a Torino, che li consacra al successo nazional-popolare a suon di comparsate nel “frullatore” televisivo: le installazioni video ripropongono le indimenticabili gag del terzetto nel Luna Park di Pippo Baudo e a Non Stop con Enzo Trapani, talent scouting televisivo (già vetrina per Verdone, I Giancattivi e tutta la generazione post-Sordi e Tognazzi) che più di tutti i programmi diede visibilità alla loro verve dissacrante e filosofica teatralizzando efficacemente la regia del piccolo schermo. Testimonianze preziosissime di un esperimento comico autodidatta che, senza ermetismi e col riso intelligente a solleticare la sensibilità delle masse, ha scosso dall’interno i narcotismi culturali del sud vittimista e zavorra del paese, esorcizzando stereotipi partenopei purulenti e quelle narrative tossiche tutte pizza, sole e mandolino.
“Aveva l’arte di nascondere l’arte, era vero, straordinario nel gesto, proletario ed elegante allo stesso tempo”, ha detto di lui Verdone in una delle interviste che impreziosiscono l’iter espositivo, raccontando la forza comunicativa di Troisi straordinario innovatore ed insieme erede di quelle coloriture espressive alla Totò e di quelle pause sospirate tipicamente eduardiane. Un talento a cui riuscì a dar voce ancor più pienamente una volta solista, nelle venature malinconiche e antieroiche del suo cinema maturo e sincero raccontato nella mostra attraverso le foto sul set di Ricomincio da tre (1981) – esordio fulminante e triplice battesimo sul grande schermo (alla scrittura, alla recitazione e alla regia) – con Giuliana De Sio in Scusate il ritardo (1982), in Splendor (1988) e nel backstage di Che ora è (89) insieme a Mastroianni e Scola, rapito dieci anni prima al Teatro Tenda dalla prodigiosa “mimica verbale” di quel giovane del sud.
E ancora: gli splendidi costumi d’epoca dalle sartorie di Non ci resta che piangere (1984), scritto e diretto insieme a Benigni, e de Il viaggio di Capitan Fracassa (1990), le immagini con Pino Daniele a incidere “O ssaje comme fa ‘o core” per Pensavo fosse amore…invece era un calesse (1991), oltre ad un angolo-trofei dove primeggiano Telegatto e David di Donatello, le sculture a lui dedicate dei maestri artigiani di San Gregorio Armeno e persino una suggestiva lettera dattiloscritta (datata 1991) di un Paolo Sorrentino ventunenne che si propone come aiuto regia per il suo prossimo film. Quel giovane studente di Economia e Commercio non poteva sapere che sarebbe arrivato agli Oscar, vent’anni dopo, proprio come il genio poetico de Il postino (1994), film-testamento per cui Troisi s’è speso fino all’ultimo palpito, nonostante le gravi condizioni di salute, perché «chistu film ‘o voglio fernì c’ ‘o core mio», diceva.
Una sezione interamente dedicata alla sua indimenticabile pellicola raccoglie alcuni oggetti di scena (borsa e bicicletta del protagonista), il libro del cileno Antonio Skármeta che tanto lo folgorò (sporcato dall’inchiostro dei suoi appassionati appunti), i bozzetti dell’abito da sposa di Beatrice (Maria Grazia Cucinotta) e un toccante video inedito dal backstage del film, girato dal nipote Stefano Veneruso.
Un regalo a chiosare un viaggio immersivo nell’arte di un leader silenzioso cresciuto alla falde del Vesuvio muovendosi sempre in direzione ostinata e contraria a dogmi e superstizioni. Un cineasta “imperfetto come certi vasi di ceramica fatti in casa”, voce affettuosa e indolente del suo tempo che ha nobilitato la balbuzie ideologica di un’intera generazione restituendole una libertà, di pensiero e di fantasia, insuperabile.
Lui, che come disse la sua compagna Anna Pavignano “sicuramente era un poeta Massimo, era Massimo il poeta”…
Francesca Eboli
Specializzanda in English and Anglo-American Studies a La Sapienza, appassionata di cinema e teatro, aspirante giornalista
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