Truffaut l’amava, Bergman la detestava. Letteratura al cinema in 40 anni di Efebo d’oro

Odi e t’amo tra mondo letterario e cinematografico. Tanti saggi dedicati all’approfondimento dello storico e prolifico rapporto, nel bel libro, Cinema e letteratura. 40 anni dell’Efebo d’Oro (Silvana Editoriale), curato da Alberto Barbera per i 40 anni del celebre premio cine-letterario, Efebo d’oro, in corso a Palermo fino a sabato 10 novembre. Ne pubblichiamo degli stralci per gentile concessione …

 

Dal libro Cinema e letteratura. 40 anni dell’Efebo d’Oro (Silvana Editoriale) curato da Alberto Barbera, con i saggi di Nicola La Gioia, Emiliano Morreale, Oscar Iarussi, Giorgio Tinazzi, Emanuela Martini, Mauro Gervasini, Alberto Pezzotta, Giulia D’Agnolo Vallan, Egle Palazzolo, Giovanni Massa e Laura Busetta.  Il volume è stato realizzato dal Centro di ricerca per la narrativa e il cinema, presieduto da Egle Palazzolo e la Banca Popolare S. Angelo.

L’immagine e la parola
di Aberto Barbera
(…) Si sa, per esempio, che François Truffaut amava i romanzi almeno quanto adorava il cinema, al punto che più della metà dei suoi film è costituita da trasposizioni o adattamenti di testi letterari. Non la pensava diversamente il suo collega e amico Éric Rohmer, che si era esercitato nella scrittura letteraria in almeno un paio di occasioni, nel momento in cui dichiarava: “Non mi sembra che un buon film parli un dialetto diverso da quello che parla mia madre letteratura”.

Non mancano, al contrario, esempi di registi schierati su posizioni diametralmente opposte. Ingmar Bergman, che solo in un paio di occasioni (e all’origine della sua straordinaria carriera di cineasta) si era accostato a testi preesistenti, aveva un’opinione alquanto drastica: “Il cinema non ha nulla a che fare con la letteratura; i caratteri e l’essenza di queste due forme d’arte sono solitamente in conflitto”.

Per non parlare di Peter Greenaway, che da anni denuncia la morte del cinema, soffocata dall’abbraccio mortale con lo storytelling: “Ciò a cui abbiamo assistito sinora sono 120 anni di testi illustrati che non hanno nulla a che vedere con il cinema. Quest’ultimo dovrebbe essere un esercizio completamente diverso rispetto all’illustrazione del testo. La maggior parte dei film parte dalle parole e non utilizza l’immagine come invece dovrebbe. Visivamente, siamo tutti degli analfabeti. Non è ancora nato un cinema che possa definirsi tale”.

L’arma fine di mondo (Come il cinema ha influenzato la letteratura (e viceversa))
di Nicola Lagioia
Quale sia il contributo che la letteratura ha dato e continua a dare al cinema è sin troppo evidente. Basta prendere l’intera filmografia di Stanley Kubrick e verificare quanta ricchezza il genio del Bronx abbia tratto dall’assoluta mancanza di un soggetto originale per la realizzazione dei suoi film.

Kubrick ha partorito tanti capolavori anche perché ha sempre avuto il coraggio di tradire i romanzi e i racconti da cui ha tratto ispirazione, ma senza quei romanzi e quei racconti non avremmo avuto Shining o Arancia meccanica o Barry Lyndon e così via. Persino il magnifico sradicamento di luogo e di tempo (dalla Vienna di inizio Novecento alla New York di settant’anni dopo) che dà vita a Eyes Wide Shut ha avuto bisogno di un libro originario (Doppio sogno di Arthur Schnitzler) da cui partire, un racconto fatto solo di parole da trasfigurare e violentare fino a vederlo splendere di luce e suoni e ombre in movimento, dal nero dei caratteri alla dimensione cinematografica.

Quale sia al contrario il modo con cui il cinema, in oltre un secolo di vita, ha influito sulla letteratura d’invenzione è meno lampante. Eppure la Settima Arte ha cambiato in modo profondo il lavoro e la vita degli scrittori. Il cinema è stata la più spettacolare sfida mossa al romanzo sul piano di sua maestà la narrazione (la quale, da un certo momento in poi, è diventata “una poltrona regale per due”) e, al tempo stesso, ha rappresentato, per la letteratura scritta, molto più di quanto essa volesse o potesse ammettere: un’intensa e salutare terapia di autoanalisi.

Dopo secoli di lenta convivenza con il teatro, e di breve ma altrettanto pacifica convivenza con ciò che si è creduto per poco tempo dovesse essere lo spettacolo totale, vale a dire l’opera, il vero iperspettacolo-totale-globale (il cinema: “l’arma fine di mondo” dell’arte del racconto) ha fatto la sua irruzione sulla scena rischiando seriamente di usurpare il posto che fino a quel momento la letteratura d’invenzione aveva avuto nell’immaginario condiviso.

In questo modo, per contrasto, il cinema ha costretto gli scrittori a capire un po’ meglio di che sostanza fosse fatta la propria stessa arte. Il cinema ha sedotto gli scrittori, li ha affascinati, preoccupati, messi all’angolo, terrorizzati, allettati, corrotti, ma in parallelo a questo scombussolamento emotivo li ha portati anche a riflettere sulla vera natura dello “specifico letterario”. Basta guardare il treno dei fratelli Lumière (1896) per capire che nessuna Anna Karenina (1877) finita sotto una locomotiva sarebbe potuta essere mai più così terrorizzante sul piano visivo.

Dalla Bibbia dei poveri all’ipertrofia delle narrazioni (l’irresistibile leggerezza di blockbuster e bestseller)
di Emiliano Morreale
(…) All’inizio degli anni settanta una grande casa cinematografica sull’orlo del collasso, la Paramount, si salva e rinasce grazie a due bestseller: Love Story di Eric Segal e Il padrino di Mario Puzo, che diventano i due grandi successi cinematografici dell’epoca.

Due film diversissimi, ma entrambi in uno strano rapporto con i tempi nuovi. Il ritorno al privato, ma con giovani che dicono parolacce e sono indipendenti; la nostalgia del patriarcato e delle radici etniche, ma in una visione cruda del’America, del sogno americano. E, sullo sfondo, i modelli sempiterni del melodramma e del gangster movie.

Segal aveva venduto la sceneggiatura Love Story alla Paramount, che gli commissionò anche un romanzo da pubblicare prima dell’uscita del film. Il volume, nelle librerie per il San Valentino del 1970, fu un successo colossale, ed effettivamente fece da apripista all’altrettanto eclatante successo del film, che uscì nel dicembre dello stesso anno.

La sinergia tra romanzo e pellicola è a quest’epoca ormai una prassi, e non ultima ragione è la mutazione del pubblico cinematografico, più alfabetizzato e generazionalmente caratterizzato, consumatore di un certo tipo di musica, televisione, fumetti. Forse, per un pubblico di questo tipo, il rapporto romanzo-film è un elemento in più, rispetto al semplice carattere parassitario della novelization.

Il padrino (The Godfather, 1972), invece, sembra segnare anche l’ascesa e la supremazia (rivelatasi effimera) di una generazione di autori nei confronti della produzione. Coppola accettò l’adattamento del romanzo di Puzo come film su commissione, dopo il rifiuto di molti nomi, ma riuscì a trasformarlo in un film del tutto personale, pieno di riferimenti alla propria infanzia a Little Italy: in breve, quasi un film “etnico”, aspetto sottolineato dall’inedita presenza di numerosi attori italo-americani nel cast.

Ispirandosi al bestseller di Puzo, ancora più smaccato su questo versante, il film fu visto anche come un ritorno ai valori della famiglia e dell’ordine patriarcale dopo il ’68: un ordine patriarcale, però, appunto assai connotato in senso etnico. Un paradosso, questo, che riguarda il film tutto: l’analisi di rituali e comportamenti degli italo-americani è sì assai precisa, ma la mafia è anche (e ancor più nel Padrino parte II) metafora dell’American way of life

Attrazione fatale (Il cinema italiano e la letteratura)
di Alberto Pezzotta
(…) La vocazione narrativa del cinema, che alle origini non è scontata, si realizza attraverso l’assimilazione del linguaggio del romanzo, anche se poi il cinema influenza a sua volta la narrativa. E anche dove il cinema, come presa diretta sulla realtà, sembra più lontano dai libri, salta sempre fuori la letteratura.

La faccenda è fin troppo nota: se, negli anni del neorealismo, si privilegiano soggetti originali, alcuni dei più influenti film neorealisti hanno una derivazione letteraria più o meno dichiarata. Nei titoli di testa di Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica si legge che il soggetto di Cesare Zavattini è “tratto dall’omonimo romanzo di Luigi Bartolini”.

Invece né Ossessione (1943) né La terra tremaEpisodio del mare (1948) di Luchino Visconti citano nei titoli di testa le fonti ispiratrici, peraltro ampiamente divulgate: rispettivamente The Postman Always Rings Twice (1934) di James M. Cain, all’epoca non ancora tradotto in italiano, e I Malavoglia (1881) di Giuseppe Verga.

È altrettanto noto come l’opera dello scrittore catanese sia invocata come modello di rinnovamento del cinema italiano da parte dei giovani intellettuali che, negli anni Quaranta, pongono le basi estetiche e politiche dell’imminente neorealismo: “I racconti di Giovanni Verga ci sembrano indicare le uniche esigenze storicamente valide; quelle di un’arte rivoluzionaria ispirata ad una umanità che soffre e spera”, scrivono Mario Alicata e il futuro regista Giuseppe De Santis nel 19406. Anche se, come ricorda Carlo Lizzani, nella biblioteca dei futuri neorealisti c’erano anche Belli, Porta, Ungaretti, Montale, Hemingway, Alain-Fournier, Flaubert, Maupassant, Kafka, Thomas Mann…

Ironicamente, Verga ebbe rapporti contrastati con il cinema. Chiamato a fornire soggetti o a cedere i diritti delle sue opere narrative, ebbe la percezione che la Settima Arte svilisse il suo nome. Di fonte alla elaborazione che Marco Praga fece del suo “bozzetto scenico” Caccia al lupo, nel 1917 sbottò:
Io non posso firmare né autorizzare col mio nome la pubblicazione di questa sintesi e descrizione […]. La cinematografia avrà le sue esigenze […] ma io ho pure quella della mia coscienza artistica.