Calvin Russell la voce di tutti i perdenti d’America

Una vita da film o da romanzo: dentro e fuori le galere del Texas mentre sale l’onda beat. Dietro le sbarre le prime ballate. Quando esce a 42 anni l’incontro col suo mentore francese che lo renderà leggenda…

calvin_artisteNo, non è né un film, né un libro. E per dirla tutta, è difficile che lo diventi. Perché qui il “wild side” non ha alcun fascino. Siamo, insomma, lontani anni luce da New York, siamo agli antipodi di quei bassifondi dove Holly o Candy — gli “amici” di Lou Reed — si prostituivano, si drogavano, spacciavano. Ma vivevano. Vivevano come nessuno della Quinta Strada avrebbe mai potuto fare o anche solo immaginare. Qui no, qui il “lato selvaggio” è solo grigio. Squallido. Perché siamo ad Austin, la capitale del Texas, il nulla (o quasi) al centro del Texas. Lontani anni luce da New York, quasi un altro continente. Un’altra vita.

Ma non per forza un’altra musica. Quella di Calvin Russell, per esempio. L’eterno perdente delle ballate dure e crude che se n’è andato quattro anni fa, il 3 aprile del 2011.

Certo, non si parla di quel dozzinale tex-mex che inonda i negozi a ridosso del Congress Avenue Bridge, il vecchio — ma rifatto — ponte sul Colorado. Al centro della città, al centro del nulla. Si parla invece di quella musica nata proprio lì, nel lato grigio del nulla. Alla periferia di Austin, quelle venti miglia di case tutte uguali, tutte anonime. Quella periferia che neanche l’elicottero di Sky, l’anno scorso — al primo Gran Premio di Formula 1 ad Austin — ha avuto il coraggio di far vedere, fissando le immagini dall’alto sul solito ponte e sul mausoleo dell’ex presidente Johnson (una sorta di orrenda piramide che Umberto Eco chiama la “più stupefacente Fortezza della Solitudine”).

Ed è qui che è nato Calvin Russel Kosler, 67 anni fa. Era il 1948. Quarto di nove figli. Il padre faceva il cuoco, la madre serviva ai tavoli del Sho’nuff Café di Austin. Non potevano permettersi altro che quella casetta, uguale a tante altre, al di là del Ponte.

Calvin aveva un compito, ancora bambino: evitare che i fratelli o le sorelle potessero aprire la porta di casa. Spesso bisognava evitare il proprietario che veniva a riscuotere l’affitto. Soldi non ce n’erano, si faceva finta di nulla.

Non c’erano dollari e non c’era neanche molta musica. Una radio. E la chitarra del fidanzato di una delle sorelle. Tutto qui.

In questa Austin, in questo Texas del dopoguerra si cresce in fretta. E Calvin se ne va di casa a 15 anni. Direzione San Francisco. Sei anni dopo la prima pubblicazione di On The Road. Che lui, ovviamente, non aveva letto.

Nessuno da casa lo cerca. Nessuno a San Francisco si cura di quel ragazzo. Giovane, giovanissimo non sa far nulla. E Calvin ritorna dalle sue parti. Continua a non saper far nulla, solo strimpellare un po’ la chitarra. Ma quelli sono gli anni dell’ondata beat e anche lui ci prova. Entra in un gruppo che si fa chiamare Cavemen. Un po’ di serate nelle birrerie di Austin, addirittura qualche sortita a Dallas, poi — ovviamente — niente di fatto.

E allora? Quelle casette, intersecate da strade altrettanto anonime, diventano il suo mercato. Vende cocaina. Lo beccano, va in carcere. Esce e nei giornaletti giovanili legge qualcosa su Timothy Leary. Decide di vendere Lsd: lo beccano di nuovo, rientra in carcere.

Esce. Usa una carta di credito rubata. Altri mesi al Texas State Penitentiary ad Huntsville. Esce ancora, tenta la fortuna in Messico. Lo prendono anche lì, altri mesi dentro. Torna, altra cella. Un po’ sfortunato, un po’ ingenuo ma soprattutto paga pegno ai suoi precedenti penali. E anche — perché non dirlo? — alla sua faccia. Una sorta di “fratello piccolo di Machete”, col suo volto bruciato, solcato da mille rughe, da decine di cicatrici. Neanche fosse stato un anziano bracciante del MidWest. Una faccia che non piaceva ai poliziotti del Texas. Così come non piacevano quei suoi due occhi verdi. Belli, bellissimi, assolutamente fuori contesto. Provocatori e penetranti (si, penetranti: li ho incrociati al Big Mama di Roma il 14 aprile del 97, quando Calvin, chitarra a tracolla, lo stesso cappello di sempre in testa, fissava tutta la prima fila degli ascoltatori, chiarendo che lui non era lì per diletto e che non voleva essere giudicato).

Per l’ennesima volta in carcere, dunque. E qui forse subentra la leggenda. Perché divide la cella con un tipo che si fa chiamare “ShotGun”. Non è un assassino, anche lui è detenuto per piccoli reati. Non si sa come, non si sa perché, fatto sta che “ShotGun” conosceva Townes Van Zandt. Un altro che non aveva avuto la vita facile anche se — figlio di petrolieri — aveva lui stesso scelto di vivere ai margini. Aveva scelto di cantare nell’altra Nashville, quella lontana dai luccichii e dalle paillettes. Aveva scelto di mettere in musica non la rabbia ma l‘ansia e la malinconia di una generazione stanca di rodei a stelle e strisce.

“ShotGun” fa sentire al suo compagno For The Sake of the Song, gli fa ascoltare Live at Old Quarter. Gli dice di provarci anche lui, di scrivere testi. Magari di raccontare le loro storie quotidiane, dietro le sbarre.

Ha quasi quarant’anni Calvin quando esce. Non crede che la musica sarà il suo futuro ma non avendo nulla di meglio da fare ci prova. Incide con amici occasionali una cassetta con ventidue canzoni. Vorrebbe darla a Charlie Sexton, un altro nome che conta da queste parti.

Un giorno, viene a sapere che Sexton sarà in città per una festa. Chiede e ottiene di poter suonare in quell’occasione. Agli organizzatori non importa nulla, uno in più o uno in meno. Lui vorrebbe cogliere l’occasione per consegnare il suo lavoro, chiedere un parere. Farsi sponsorizzare. Ma non riuscirà a parlare con Charlie Sexton. Lì, alla festa, c’è però Patrick Mathé, il fondatore — e proprietario — della New Rose, la casa discografica francese che sta stampando e distribuendo nel vecchio continente il rock d’autore americano. Proprio mentre negli States la ventata pare passata e si guarda a ritmi più commerciali.

Patrick Mathé ascolta il suo breve set dal palco e sembra interessato. Calvin non ci pensa due volte: prende dalla tasca del giubbotto jeans la cassetta e gliela affida.

La leggenda — se di leggenda si tratta — finisce qui e si ritorna alla storia. Documentata e documentabile. Con l’uscita, prima in Europa e poi in America, di A Crack In Time. Il suo esordio a 42 anni, voluto, fortemente voluto dal suo mentore, Mathé.

È un disco grezzo, quasi rozzo. C’è il blues, il folk, la ballata, il soul, c’è il rock stradaiolo, ci sono le chitarre urbane. Solo che a differenza di tanti altri lavori, le varie componenti non si alternano un brano dopo l’altro. Qui, gli elementi sono tutti in una sola canzone. Sono in tutte le canzoni.

E l’anno dopo, esce Sounds From The Fourth World. Siamo sempre lì. Calvin concede qualcosa alla produzione — ci sono brani forse più radiofonici — ma ora, in più, ci sono i suoi racconti. C’è Crossroad — magari lo stesso incrocio dove Robert Johnson ha incontrato il diavolo che gli ha insegnato a suonare il blues — e c’è Rockin’ The Repubblicans. È il racconto – senza alcuna enfasi — di un meeting repubblicano a Washington, Dc. Coi bus che arrivano, che scaricano le famiglie sempre sorridenti, coi giovani che tentano un improbabile “rock ‘n’roll”. È il racconto di come si provano a conquistare voti. “Noccioline per l’elefante”.

E poi via così. Con una furia creativa che lo porterà a pubblicare quattordici album in ventun anni. Fino al 2011, quando uscirà un live — non casualmente intitolato The Last Call — che Calvin non farà in tempo ad ascoltare. Stroncato da un tumore, che blandamente aveva provato a curare vicino alle Alpi, dove viveva — per alcuni mesi all’anno — con la nuova moglie svizzera.

In mezzo tante cose. La collaborazione con Chuck Prophet e tanti concerti. Quasi tutti in Europa, però. Soprattutto in Francia. “L’America non perdona il mio passato”, sosteneva.

In mezzo tante cose, dicevamo, ma soprattutto quello che molti considerano il suo capolavoro, Soldier. E in quest’album c’è una canzone: Characters. È una ballata rock-blues, che più rock blues davvero non si può, che racconta il carcere. Non in prima persona ma come se fosse una voce fuori campo. Racconta del “pareggio” fra il reo e lo Stato che comunque si è preso la vita del detenuto, svela i ricordi, le mini-speranze di chi è dietro le sbarre. Ma soprattutto ripete in un refrain incalzante: “Solo qualcuno, solo qualche personaggio potrà capire cosa dico”.

Nessuna pretesa universalistica, allora, nessun messaggio. Magari cronaca, cronaca da una sterminata distesa di casette, capitale del nulla. O più probabilmente poesia. Cruda, essenziale. Come solo chi è stato in carcere può scrivere.


Stefano Bocconetti

giornalista e romanista