Legge cinema: “Ma l’innovazione arriva dalle serie tv”
Ancora una risposta di Marco Visalberghi all’intervento di Stefania Brai sul Ddl Franceschini. Per i documentaristi “bisogna farla finita con la contrapposizione tra Cinema tv e nuovi Media”. Serve “investire nei “cervelli e le realtà indipendenti” in modo da permettere loro di farsi interpreti delle realtà, delle idee, delle posizioni critiche che non trovano spazio nei palinsesti della cultura dominante”…
Stefania Brai solleva un problema centrale (leggi qui) sul quale vale la pena riflettere ancor prima di azzardare una risposta. Prima di tutto dobbiamo definire quale sia il “prodotto culturale per immagini” sul quale riteniamo vadano investiti i soldi pubblici. E immediatamente dopo spiegare perché a nostro avviso sia indispensabile che tale prodotto venga finanziato.
È convinzione comune che quell’espressione artistica, generalmente chiamata cinema, vada sostenuta e protetta. L’assunto è che così facendo vengano difese in modo particolare quelle opere che aiutano a diffondere la nostra arte e cultura, cioè l’identità di paese.
Per Stefania Brai, il confine passa per i prodotti destinati alle sale cinematografiche e, in uno slancio di modernismo, include anche i documentari, se ovviamente fruiti in sala. Ma non sia mai che qualcuno pensi di includere prodotti fatti per usi diversi. Nella sua visione la sala è sacra, la televisione – e tutte le altre forme di distribuzione oggi disponibili – sono opera del demonio, asservite a poteri forti dell’economia. Quindi i film per la sala sono gli unici che posseggono le caratteristiche giuste per difendere e diffondere i valori più profondi della nostra cultura, il resto invece rappresenta la degenerazione da combattere. A me suona tanto l’equivalente di chi oggi ritiene che per difendere il valore universale della musica basti sovvenzionare l’opera lirica e le filarmoniche.
Doc/It, così come molti produttori indipendenti, sono invece convinti che sia giunto il momento di rendersi conto che il mondo cambia, cambiano i modi di far cultura, di fruirla e di diffonderla. È giunta l’ora di uscire dall’illusione che “film difficili” proiettati in sale semideserte possano continuare ad essere il fine ultimo di una legge di settore, e sia invece necessario individuare quali siano i soggetti che oggi possono avere un ruolo d’innovazione, di stimolo e di critica nella società odierna dove informazione e cultura assumono mille forme che con la sala hanno sempre meno a che fare. Quale meccanismo oggi può e deve funzionare da correttivo alle semplici leggi del mercato e del consenso delle grandi multinazionali? Chi può stimolare una riflessione sul mondo capace di sviluppare gli anticorpi culturali necessari ad evitare che gli aspetti migliori della nostra storia e cultura nazionale vengano macinati nella globalizzazione conformistica dominante?
In sostanza noi siamo convinti che lo scopo di una legge di settore sia quello di favorire un meccanismo ideativo e produttivo capace di far crescere e consolidare un settore sano e vincente, che sappia stare sul mercato, che sappia parlare alla gente, in particolare alle nuove generazioni e soprattutto sappia sviluppare quelle capacità critiche fondamentali per una democrazia evoluta.
Serve un comparto dell’audiovisivo forte e maturo per evitare di finire terra di conquista culturale dei mercati più forti, ma che permetta anzi al nostro paese di invertire la tendenza e cominciare ad esportare il prodotto audiovisivo, così come avviene negli altri paesi europei. Tutto questo non avviene ritirandosi in una nostalgica torre d’avorio, ma imparando a usare gli strumenti che abbiamo a disposizione.
Il senso di una legge di sistema quindi è quello investire nei “cervelli e le realtà indipendenti” in modo da permettere loro di farsi interpreti delle realtà, delle idee, delle posizioni critiche che non trovano spazio nei palinsesti della cultura dominante. L’obiettivo è di offrire a questi soggetti indipendenti la possibilità sì di creare storie ed opere che altrimenti non vedrebbero mai la luce, ma soprattutto quella di raggiungere il successo di pubblico ed economico necessario per assolvere davvero a quel ruolo correttivo che tutti pensiamo necessario.
A pensarci bene le opere più innovative, irriverenti e anticonformiste non ci arrivano dai templi del cinema hollywoodiano, dal sacrario targato CNC del cinema francese o dalla tv mainstream, ma ci arrivano dai “newcomers”: serie come i Sopranos di HBO, di oltre quindici anni fa, Breaking Bad di AMC, House of Card di Netflix (nella foto) raccontano al meglio la complessità della realtà contemporanea.
Per parlare del documentario nostrano potrei citare Luisiana di Minervini, Sacro Gra di Gianfranco Rosi, Fuori Strada di Elisa Amoruso o Io sto con la sposa di Antonio Augugliaro, Gabriele Del Grande e Khaled Soliman Al Nassiry. Tutte opere che hanno trovato forme di finanziamento tra le più varie e bislacche, ma che hanno tutte saputo far molto parlare di se e lasciare un segno. Per portar acqua al mio mulino bisogna farla finita con la contrapposizione tra Cinema tv e nuovi Media vorrei citare un uomo di Cinema come Steve Buscemi che di recente ha detto: “No so se la televisione oggi sia meglio del cinema. I brutti film ci sono sempre stati e ci sono ancora e c’è anche un sacco di brutta televisione. Ma certo quella distinzione non ha più significato”.
Per tornare al Ddl Franceschini vorrei dire che mi sembra il Governo cerchi di andare nella direzione giusta. Si rivolge al settore nel suo complesso primi tra tutti il Cinema e le sale cinematografiche con l’insostituibile ruolo di fruizione collettiva. Lo fa guardando al presente e al futuro del settore audiovisivo, con l’intento di investire sulla sua crescita e la sua capacità di competere sui mercati nazionali ed internazionali. Vi sembro un ingenuo?
Forse lo sono. Ma anche se la politica del nostro paese mi ha spesso deluso e chissà come finirà questa volta, io rimango un ottimista. Nonostante le critiche e le perplessità piovute da più parti, ritengo che valga davvero la pena di provarci, di crederci e di fare il possibile per proseguire su questa strada. L’alternativa d’altra parte è uno scetticismo nostalgico e disfattista che non mi appartiene. Quindi ancora una volta invito tutti a rimboccarsi le maniche, ad occuparsi dei decreti attuativi e soprattutto a battersi per una adeguata definizione di produttore indipendente che è poi il fulcro dell’intera vicenda.
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Che i tempi siano cambiati non c’è dubbio . Che la Brai tende a chiudersi nella torre d’avorio è un vizio degli autori di cinema che segna il suo passo già da diversi decenni . Ma devo anche riconoscere a Stefania una straordinaria lucidità nell’analisi dei fatti . Che poi non tenga conto di quanto il mondo , il pubblico e mezzi di fruizione del prodotto cinema/audiovisivo siano cambiati , bhe è ovvio e palese . Ci troviamo come sempre accade dalle nostre parti , lontani dalla realtà. Vado spesso in metropolitana e altri mezzi pubblici e vedere il 70% delle persone che smanipolano costantemente con il loro cellulare vedendo di tutto mi suggerisce che qualcosa forse è cambiato e il vecchio mondo di Stefania non se ne è ancora accorto . E’ anche vero che avere questa immensa fiducia nel decreto del governo Renzi mi sembra da pazzi . Possiamo dire che c’è la buona volontà di fare qualcosa per il nostro settore ma si perde in mare di rivoli e ripensamenti e ignoranze che possono solo essere risolte consultandoci e lavorando insieme . Come sempre ci sono dei così detti “professoroni” che senza conoscere bene la realtà che li circonda , dall’alto delle loro posizioni di potere, da accademici ,sentenziano e legiferano sulla base non di esperienza diretta ma di studi e statistiche e esempi francesi e guarda di là e guarda di quà . Guardiamo per bene in casa nostra e facciamo un passo avanti verso il futuro evitando di sognare troppo ma anche di cadere nel terrificante buio di sale semideserte che proiettano film “purtroppo” spesso inguardabili .