Abolita la censura. Via all’autocensura in difesa dei minori da violenza, sesso e turpiloquio
Mai più nulla osta negati e nessun taglio ai film. Lo stabilisce il decreto attuativo alla famigerata Legge Franceschini, firmato dallo stesso Ministro, provvedimento applaudito dai più come la “definitiva abolizione della censura”, ma che in realtà si preoccupa di tutelare più la visione dei minori che la libertà artistica.
A essere introdotto è infatti un nuovo sistema di classificazione delle opere in base alla fascia d’età del pubblico destinatario, alla quale dovranno provvedere gli stessi produttori e distributori, secondo “i princìpi di libertà e di responsabilità, tanto degli operatori del settore cinematografico e audiovisivo, quanto delle famiglie”.
Le opere dovranno essere categorizzate come “per tutti”, o essere vietate ai minori di 6, 14 o 18 anni, mentre i contenuti sensibili come “violenza, sesso, uso di armi e turpiloquio” dovranno essere segnalati tramite l’utilizzo di apposite icone. A vagliare il procedimento sarà una”Commissione per la classificazione delle opere cinematografiche” – istituita presso la DGCA del Ministero della Cultura – che sostituirà le attuali sette Commissioni per la revisione cinematografica, e che sarà rinnovata ogni tre anni.
“Un’ autoregolamentazione del settore” dunque che ha tutto il carattere di un’ “autocensura” o almeno potrebbe diventarlo. Tra i quarantanove membri selezionati nel nuovo organo amministrativo – presieduti da Alessandro Pajno – come del resto nelle precedenti commissione di revisione figurano sociologi, pedagogisti, psicologi, educatori, magistrati, avvocati, ambientalisti, e pure gli immancabili “rappresentanti delle associazioni dei genitori maggiormente rappresentative”, da sempre le più aguerrite nella difesa del comune senso del pudore. Mentre gli esperti cinematografici designti saranno soltanto quattro: sarà ben difficile anche soltanto ascoltare le loro voci in mezzo a quelle dgli altri qarantacinque comissari, figurarsi ascoltare le ragioni della settima arte.
La battaglia per eliminare le forbici di Stato in materia cinematografica aveva mosso i suoi primi passi già nel ’98, quando Walter Veltroni, ai tempi a sua volta ministro della Cultura, si fece promotore di un disegno di legge che puntava all’abolizione della censura preventiva. Ottenuto il via del Consiglio dei ministri, la proposta si arenò in qualche commissione del Senato. Fu proprio a seguito di un eclatante caso di censura – quello che impedì a Totò che visse due volte di Ciprì e Maresco di uscire nelle sale con l’accusa di vilipendio della religione –, che l’ex ministro si fece interprete di una sollevazione da parte degli intellettuali e del mondo dello spettacolo.
La Commissione di revisione cinematografica aveva infatti ritenuto il film “degradante per “la dignità del popolo siciliano, del mondo italiano e dell’umanità”, e colmo di “disprezzo verso il sentimento religioso”, con scene “blasfeme e sacrileghe, intrise di degrado morale”. La pellicola degli ex cinici palermitani venne infine “liberata” grazie a un ricorso a via Ferratella, approdando sul grande schermo con il divieto ai 18 anni. Da allora, l’unico film colpito dalla censura è stato Moriturus di Raffaele Picchio nel 2012: definito come “un saggio di perversità e sadismo gratuiti”, circolato dunque solo per festival cinematografici.
Qui per ripercorrere la pluricentenaria storia della censura cinematografica in Italia – che passa per titoli come Ultimo tango a Parigi (1972) di Bertolucci, Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini (1975) e Il pap’occhio (1980) di Arbore -, ricostruita nell’approfondita mostra digitale permanente di “Cinecensura”, organizzata dal MIC, in collaborazione con la Cineteca di Bologna e ANICA.
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