Addio Kirk Douglas, l’ultimo Ulisse della Hollywood che fu
È morto il 5 febbraio, a 103 anni, Kirk Douglas, ultimo rappresentante di una Hollywood che non c’è più. Tra i tanti ruoli impressi nella storia del cinema, i protagonisti di “Orizzonti di gloria” e “Spartacus” (entrambi di Stanley Kubrick), che sfidarono l’America del Maccartismo. Ma anche memorabili antieroi in film come “L’asso nella manica” e “Il bruto e la bella”, o figure celebri della cultura, dall'”Ulisse” di Mario Camerini al Van Gogh di “Brama di vivere”. Una carriera di oltre sessant’anni che ha prediletto caratteri modernamente sofferti e tormentati…
«Ordine di trasferirci al fronte immediatamente». «Dia ancora qualche minuto agli uomini». Si congedava con quest’ultima battuta il colonnello (antimilitarista) Dax di Kirk Douglas, nello struggente finale di Orizzonti di gloria, uno dei massimi capolavori di Kubrick (tratto dal romanzo di Humphrey Cobb). E anche a noi spettatori servirà (più di) qualche minuto per abituarci all’idea della scomparsa dell’attore, avvenuta il 5 febbraio all’età di 103 anni. Perché, in fondo, una parte di noi stava cominciando a credere che fosse immortale, come la Hollywood classica di cui è stato l’ultimo, straordinariamente longevo esponente.
Restano però irriducibilmente moderni i personaggi a cui l’attore (nato il 9 dicembre 1916 ad Amsterdam, nello Stato di New York, da una famiglia di immigrati ebrei bielorussi) ha dato vita in sessant’anni di carriera, iniziata nel 1946 (complice la mediazione di Lauren Bacall) sul set de Lo strano amore di Marta Ivers con Barbara Stanwyck.
Da allora, sino alle ultime apparizioni cinematografiche nella prima decade dei Duemila, l’attore (all’anagrafe Issur Danielovitch) ha segnato la storia della settima arte con la sua fisionomia inconfondibile (la fossetta sul mento “tramandata” al figlio attore Michael), ma anche e soprattutto con la forza delle figure che ha consegnato al grande schermo.
A volte erano eroi positivi ma sconfitti da (reali) ingiustizie più grandi di loro: pensiamo appunto al colonnello di Orizzonti di gloria, alla sua battaglia disperata per sottrarre i soldati dalla follia (ammantata di retorica) delle alte gerarchie militari. Nell’anno di 1917, infatti, viene naturale partire da quel film per celebrare il ricordo dell’attore.
E però, forse, tra i molti personaggi di Douglas, quello più emblematico, sempre di derivazione letteraria, è Ulisse: il protagonista «che molti dolori patì» (come ce lo presenta il proemio dell’Odissea), impersonato dall’attore nella trasposizione, del 1954, di Mario Camerini. Perché, antichi o contemporanei, positivi o negativi (o magari, e tanto più modernamente, ambigui) che fossero, i migliori ruoli di Douglas ci hanno mostrato sovente figure in un modo o nell’altro tormentate e afflitte.
Dell’affresco a firma Stanley Kubrick sulla (e contro la) Grande Guerra, Douglas fu anche co-produttore (con la Bryna Productions, da lui fondata), e solo grazie al suo impegno in prima persona un’opera del genere poté circolare negli Stati Uniti del Maccartismo. Lo stesso vale per l’altro eroe kubrickiano degli oppressi interpretato da Douglas, quello di Spartacus (1960): il capo degli schiavi in rivolta nella Roma antica, già simbolo delle rivendicazioni politiche e sociali in epoche assai più recenti (pensiamo agli “spartachisti” di Rosa Luxemburg), ricevette dalla performance dell’attore nuova gloria, in quello che fu un altro colpo della star e co-produttore Douglas al conformismo soffocante dell’America di quegli anni.
Ma sono stati più spesso gli antieroi (quando non i veri e propri villain) la vera specialità del divo: giornalisti spregiudicati (L’asso nella manica, 1951, di Billy Wilder), medici-pistoleri ubriaconi (il Doc Holliday di Sfida all’O.K: Corral, insieme all’amico Burt Lancaster con cui girerà altri sei film), infidi capibanda (Uomini e cobra, 1970, di Joseph L. Mankiewicz), cinici produttori cinematografici (Il bruto e la bella, 1952, di Vincente Minnelli).
Per quest’ultimo ruolo Douglas ebbe una delle sue tre nomination agli Oscar. Le altre due furono per il pugile de Il grande campione (1949) e per il Vincent Van Gogh di Brama di vivere (1957): un caso emblematico, dunque, di star hollywoodiana a lungo sfortunata con l’Academy e “compensata” infine col riconoscimento alla carriera (nel 1996).
Anche nella New Hollywood degli anni Settanta, già diversa da quella in cui aveva esordito ed era diventato famoso, Douglas ebbe modo di farsi notare e di incidere: pensiamo all’apprezzato ruolo nell’horror Fury (1978), di Brian De Palma, o al contributo per la realizzazione di Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975), di Miloš Forman, prodotto da Michael Douglas su suggerimento del padre Kirk, che aveva già portato a teatro il romanzo originale di Ken Kesey (ma dovette rinunciare a interpretarlo per il cinema).
«Ho sempre detto che la mia vita è una sceneggiatura di serie B. Non ne farei mai un film perché è il perfetto esempio della tipica storia americana», disse una volta di sé Kirk Douglas. Chissà se un giorno, nella Hollywood odierna sempre affamata di biopic (non solo) sulle star, qualcuno vorrà smentire quest’affermazione: raccontandoci, come un altro dei suoi classici (e moderni) personaggi, il divo che ha vissuto un intero secolo.
Emanuele Bucci
Libero scrittore, autore del romanzo "I Peccatori" (2015), divulgatore di cinema, letteratura e altra creatività.
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