Cecilia, lo sguardo di una combattente. Dall’altra parte della Storia
Addio Cecilia Mangini, la signora del documentario, la decana del cinema del reale. Aveva 93 anni, vissuti in prima linea e al fianco di Lino Del Fra, compagno e complice di tanti set. Ha raccontato le saline di Lipari, i ragazzi di vita pasoliniani, i canti funebri salentini, le contadine e le operaie, la lotta delle viet-cong. E ogni volta, il suo era uno sguardo anticonformista: che le faceva rivolgere la camera verso il pubblico anziché il palco, e magari mettersi a fare il bucato con le guerrigliere indocinesi. Unica donna in un mondo di uomini, la scelta dell’antifascismo e di stare sempre dalla parte degli ultimi le è costata censure e ostracismi. Se ne va un altro pezzo del Novecento. Insostituibile.
Ha combattuto tutta la vita Cecilia Mangini. Contro le diseguaglianze, gli stereotipi, contro i fascismi. E ha combattuto fino all’ultimo respiro. Se n’è andata il 21 gennaio, per una bizzarra coincidenza proprio il giorno dei cent’anni dalla nascita del Pci: di quel giorno l’unica testimonianza filmata (ripresa per l’occasione da tutti i media) sono trenta minuti di repertorio che lei aveva ritrovato durante la lavorazione di All’armi siam fascisti! e custodito per anni.
Aveva 93 anni, ma soltanto sugli ultimi quindici o venti si sono accesi i riflettori. Quelli dei festival, degli incontri, della stampa, delle tv, a raccontare della fotografa, della “signora del documentario”, del rapporto con Pasolini. Molto meno, invece, dell’impegno politico (socialista) e del suo pensiero critico, con Gramsci nel cuore. La sua scoperta da parte dell’informazione mainstream è stata tardiva, conforme più alle esigenze mediatiche che alla sua arte.
E pensare che Cecilia dell’anticonformismo ha fatto subito professione. Anticonformismo e militanza. Vissuti con quel suo piglio da combattente che, invece di fotografare il palco, la spinge a fotografare il pubblico, quella massa compatta di braccianti e contadini vestiti a festa. Tra i quali non c’è neanche una donna.
Ma c’è lei a raccontarlo. In quello scatto del 1956 a Rutigliano, nella provincia di Bari, la stessa dove Cecilia ha aperto gli occhi per la prima volta nel 1927 (a Mola di Bari) e da dove, già ragazza, è andata per il mondo col desiderio di raccontarlo. Convinta come tanti suoi compagni di allora (Beppe Ferrara, Luigi Di Gianni, Michele Gandin, Gianfranco Mingozzi, Marco Leto, Vittorio De Seta cresciuti alla scuola di Ernesto De Martino) che il cinema il mondo l’avrebbe cambiato. Cinema militante, si diceva allora. E per lei, soprattutto, cinema del reale, come ha sempre detto: “Sono una documentarista e ci tengo”.
Un credo, del resto, condiviso nel quotidiano con Lino Del Fra, compagno di vita e d’arte con cui Cecilia ha intrecciato il suo fare, ardentemente alla pari nel lavoro, ma in secondo piano sotto i riflettori, scontando da donna di vivere in un mondo (quello del cinema soprattutto) di soli uomini. O almeno di tanti più uomini.
Da vera artista Cecilia Mangini ha stupito sempre. Rivelando carattere e rigore. Fin dagli scatti iniziali a immortalare la fatica del lavoro nel biancore accecante delle saline di Lipari. Proseguendo tra i ragazzi di vita delle marane romane (eccolo Pasolini). Tra le “professioniste del sacro” nella Grecìa salentina che piangono i loro morti. Tra gli scolari costretti alle briglie sul collo delle classi differenziali. Tra i fedeli delle marce pagane al Divino amore, nella Roma (e l’Italia tutta) scudocrociata dei Sessanta. Nelle fabbriche e nelle campagne dove “essere donne” significa essere sfruttate di più, in barba alle promesse luccicanti del boom economico.
Essere combattente l’ha spinta a tornare in quel Sud (con Mariangela Barbanente) accecato nei ’60 dal sogno industriale, oggi avvelenato dallo stesso. A ritrovarsi, dopo sessant’anni, in mezzo alle guerrigliere vietcong – riportate in vita con Paolo Pisanelli (in Due scatole dimenticate) – in posa coi loro fucili, e anche a fare il bucato insieme a loro. O ancora a scrutare nella vita di Grazia Deledda (ancora con Paolo Pisanelli), il suo ultimo lavoro, che della scrittrice premio Nobel ci regala una lettura del tutto inedita, raccontandocela “rivoluzionaria”, emancipata grazie alla sua arte, alla sua attenzione verso gli ultimi.
Una storia che Cecilia Mangini ha vissuto a sua volta. Raccontando a sua volta il mondo degli ultimi, degli sfruttati, degli emarginati, subendo censure, insieme al suo Lino (All’armi siam fascisti! resta uno dei film più censurati d’Italia, ora disponibile su Amazon) e ostracismi per tanti anni. Fino alla tardiva (ri)scoperta del suo lavoro (l’abbiamo detto, sbandierato più per la sua verve, da piazzare in qualche carrellata di donne esemplari, come va tanto di moda di questi tempi) -, riscoperta che l’ha portata anche ad essere attrice, a 91 anni, per il cinema francese, nei panni di nonna Agathe, piena di argento vivo (come recita il titolo del film di Stéphane Batut), ritrovarsi al Festival di Cannes, applaudita come una diva, da una folla internazionale di ragazzi, nella sezione più alternativa e ribelle (l’ACID) della kermesse francese. Così come in tanti altri festival internazionali (da Rotterdam a New York, da Teheran a Vienna), tanti altri applausi ha ricevuto per il sui documentari.
E poi la generosità che l’ha portanta a collaborare con queste pagine web, ad accompagnare in più occasioni il nostro Premio Bookciak, Azione!, ad essere maestra e miniera di storia, di racconti e riflessioni. Di scoperte e consigli. Con quelle sue rughe da regina e i capelli bianchissimi e meravigliosamente scarmigliati, che magari, proprio quando lo erano più del solito, ti diceva con vanto: “Vedi oggi mi sono regalata il parrucchiere!”.
Il regalo Cecilia è stato avere la tua amicizia. A Luca l’abbraccio più grande.
Gabriella Gallozzi
Giornalista e critica cinematografica. Fondatrice e direttrice di Bookciak Magazine e del premio Bookciak, Azione!. E prima, per 26 anni, a l'Unità.
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