Quell’anarchico di Federico. Ritratto di Fellini da adulto nel nuovo libro di Goffredo Fofi

Arrivato da poco in libreria, “Fellini anarchico” (Eléuthera, 2021) di Goffredo Fofi appassionata analisi critica sul cinema anarchico dell’autore de “La dolce vita”. “Fellini è stato un acuto osservatore dell’alienazione collettiva e del ‘sistema’ che la favorisce, oltre che l’irriverente cantore degli ‘ultimi’, girovaghi e prostitute, sbandati e bidonisti. Ed è appunto qui che si delinea quella peculiare visione anarchica della società che attraversa in chiaroscuro l’intera sua opera”. Del resto anche Callisto Cosulich e André Bazin lo definirono tale già a proposito de “Lo sceicco bianco” e “La strada” …

Possiamo definire Federico Fellini un anarchico? Alcun dubbio, per il saggista Goffredo Fofi, critico cinematografico, letterario e teatrale, curatore fra gli altri, insieme alla compagna di Totò Franca Faldini, di L’avventurosa storia del cinema italiano (1982). E lo annuncia dal titolo del suo volume, fresco di stampa, apparso In occasione dei 100 anni della nascita, Fellini anarchico (Eléuthera, 118 pp., 13 euro) senza punto interrogativo, tout court.

Affascinato dal filosofo attivista della non-violenza Danilo Dolci e dalle sue battaglie a fianco dei disoccupati e contro la mafia, basate sull’ideale di un pacifismo “gandhiano”, Fofi con Eléuthera – Libri per una cultura libertaria ha pubblicato Il cinema del no. Visioni anarchiche della vita e della società (2015) e L’oppio del popolo (2019).

“Fellini ha sempre voluto meravigliare, spiazzare, divertire anche, ma al contempo è stato un acuto osservatore dell’alienazione collettiva e del ‘sistema’ che la favorisce, oltre che l’irriverente cantore degli ‘ultimi’, girovaghi e prostitute, sbandati e bidonisti. Ed è appunto qui che si delinea quella peculiare visione anarchica della società che attraversa in chiaroscuro l’intera sua opera”: così l’autore presenta il volume, mettendo in evidenza una propria particolare concezione della dottrina anarchica.

Come punto di partenza, Fofi individua i tre artisti più “diversamente anarchici” nella cultura italiana del ’900 e dei primi anni del nostro secolo: l’antropologo Federico Fellini, il vate Pierpaolo Pasolini e il filosofo Carmelo Bene. Tutti, indubbiamente grandi narcisi o, “per meglio dire grandi individualisti, nel senso più alto del termine”.

Dei tre, solo Bene si dichiarò più di una volta “pienamente anarchico”, mentre gli altri due espressero con maggiore cautela le loro convinzioni politiche: Pasolini cercò quasi ossessivamente un dialogo con la società in cui viveva, da provocatore-educatore, mentre Fellini mediò fra i propri ideali e il mondo dello spettacolo, lo spettacolo della società, risultando il più “mobile” e mantenne viva l’esigenza di un dialogo con il grande pubblico perseguendo l’obiettivo di “meravigliare per piacere”, per essere riconosciuto e amato, per raccontare e costruire “grandi non piccoli mondi”.

Quindi definire Fellini anarchico può forse dirsi una forzatura, per l’autore, se si pensa ai film degli anni di splendore, ma lo è sempre di meno man mano che il regista ha avvertito l’esigenza di spingersi più a fondo, esprimendo l’insoddisfazione del presente, il bisogno di scavarne il senso e la paura delle conclusioni a cui il tutto avrebbe potuto portarlo e lo ha infine portato.

Se per il critico Callisto Cosulich la prima opera cinematografica firmata dal solo Fellini, Lo sceicco bianco (1952) fu il primo film anarchico italiano, in Francia il “profeta della Nouvelle Vague” André Bazin, parlò di un Fellini “anarchico” a proposito di La strada (1954); e ancora di recente Daniel Pennac in La legge del sognatore (Feltrinelli) ha insistito sulla figura di un Fellini anarchico e consapevole di esserlo.

Fra il 1954 e il 1957 La strada, Il bidone e Le notti di Cabiria – tutti interpretati da Giulietta Masina – formano una sorta di trilogia dell’emarginazione che perlustra un mondo di sconfitti tuttavia non domati, alle prese con il problema della sopravvivenza, inventando aspetti diversi dell’”arte di arrangiarsi”, e possiamo, secondo Fofi, considerare quest’arte come l’espressione di un istintivo e spontaneo anarchismo di tutta una parte della società, costretta a vedersela da sola in un mondo decisamente classista e ostile.

Le notti di Cabiria è un film quantomeno “anarcoide”, quadro “affettuoso” del mondo delle prostitute – con protagonista l’angelica Cabiria -, dei loro clienti e dei loro protettori. In La strada Fellini si era già disincantato di fronte all’”euforico disordine del boom e più ancora alla cinica reazione del potere alle prospettive di cambiamento cercate da una minoranza”.

Nel 1960 La dolce vita segnò la conversione di Fellini a una libertà creativa quasi assoluta: in quest’affresco della corruzione dell’Italia – sempre più impantanata nel vizio e nel materialismo – a cavallo degli anni fra ’50 e ’60, il linguaggio si fece decisamente nuovo; rinviava alla libertà delle grandi avanguardie, e del “più grande dei registi anarchici”, Luis Buñuel. Fu allora che Fellini iniziò a diventare diffidente nei confronti della società, fino a pervenire via via, per Fofi, all’anarchismo.

Nel suo film più autobiografico, Amarcord (1973), compare una figura minoritaria e perdente, quella del padre del protagonista, dichiaratamente anarchico, un ostinato oppositore di un regime “che fu persino più volgare che violento”. È un film-chiave per capire il nostro Paese, la sua storia e la mediocrità della sua cultura.

Anche nel precedente Satyricon (1969), che narra la decadenza dell’antica Roma, i due giovani protagonisti hippies appaiono anarchici. E in qualche modo “anarcoide” può definirsi anni dopo La nave va (1983), affresco della fine di un’altra epoca, quella della “vecchia Europa”, all’avvicinarsi alla Prima guerra mondiale, poiché gli autori, Fellini e Tonino Guerra, “la confrontano non esplicitamente con gli annunci di fine della nostra, di civiltà, negli anni del suicidio di una società borghese divisa in nazioni e fazioni, da lotte intercapitaliste”.

Se Casanova (1976) ci aveva mostrato la marionettistica alienazione di un individualismo narcisistico, ridicolo e manipolabile, La voce della luna (1990) affida a due irrecuperabili sbandati, anarchici, la fragile ma irriducibile distanza da una società che il regista ci mostra nella sua degenerazione festaiola e conformista, nell’euforia consumistica della “saga dello gnocco”.

Molto significativo e simbolico, La voce della luna (1990), dichiarazione cruda di sfiducia nella società italiana, forma una sorta di trittico con Amarcord – l’Italia povera sotto il fascismo – e La dolce vita – l’Italia del boom, della DC e dei pentapartiti. Nei margini, nei sottoscala, negli anfratti di questa festa continua si nascondono i disadattati, gli espulsi, gli imperfetti.

È infatti sul fallimento di una civiltà che Fellini ragiona negli ultimi anni della sua vita: sull’umanesimo e la democrazia. E lo sentiamo più vicino, amaro, fino alla festa continua della “sagra dello gnocco” in La voce della luna, “il quadro più spietato dell’imbecillità che ci sovrasta”, festa continua di una banda che compare ovunque, di una volgare fiera della stupidità in cui tutti sono chiamati a divertirsi, a consumare, senza mai fermarsi a pensare, a ragionare su che mondo stanno costruendo e accettando, su cosa è diventata la loro esistenza. Fellini è ormai arrivato a convinzioni pienamente e saldamente anarchiche, una “forma di disperazione creativa” per dirla col teorico dell’anarchia Colin Ward.

Per Fofi quindi Fellini fu anarchico almeno alla fine: senza fiducia in alcun ordine sociale di cui aveva fatto esperienza e senza più speranza in nessun altro a venire, ostinandosi a difendersi, male, dalle nefandezze della società e della storia, dal Capitale con il suo feticcio del denaro.