Quell’obiettivo che ha cambiato il cinema. Cannes festeggia e “Blow Up” torna in sala
Dal 2 ottobre in sala (grazie alla Cinteca di Bologna, qui la programmazione) “Blow Up”, il capolavoro di Michelangelo Antonioni da un racconto dell’argentino Julio Cortázar. Cinquant’anni fa a Cannes vinse il Grand Prix (così si chiamava all’epoca la Palma d’Oro) e il festival dei 70 ha reso omaggio al titolo che ha segnato un’epoca, con la versione restaurata dalla Cineteca di Bologna, Istituto Luce-Cinecittà e Criterion…
Cosa c’è di più ingannevole di una fotografia? Ispirato al racconto breve Le bave del diavolo dell’argentino Julio Cortázar, vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 1967, Blow Up di Michelangelo Antonioni è un film che ha raccontato, e segnato, un’intera epoca.
E c’è tutto l’universo in movimento, e in ogni suo piccolo dettaglio, davanti all’obiettivo “celebre” di Thomas (David Hemmings), acclamato fotografo di moda a Londra. Un universo senza confini, oltre gli studi fotografici dove fa set con splendide modelle; un universo da cui non riesce a sottrarre lo sguardo.
Così come il mondo intero non riesce a stancarsi di guardare quella Londra anni ’60, luogo da cui si origina ogni cosa: glamour, moda, musica, vita, successo ed eccesso. Emblema di improvvisa mondializzazione e modernità. Anche se… . Anche se, ad ascoltarli bene, sinistri scricchiolii già scuotono la città. Siamo in realtà già all’epilogo dell’affascinante e coinvolgente swinging London, che non reggerà l’urto del turbinio d’idee e contestazioni che si cominciano a levare, soprattutto in California; e che stanno per arrivare nella vecchia Europa.
In tutto quel dorato vacuo Thomas, per il momento, si sente sicuro nel suo ruolo, nella sua torre d’avorio. Ma è insoddisfatto e soprattutto solo. Isolato. Gira in città con una Rolls Royce decappottabile, mentre l’inquietudine dell’appagamento e del successo raggiunto lo divora. Esplora, spinto dalla curiosità, le zone disagiate dove vivono giovani hippies o clochard. Dormitori pubblici promiscui, nei quali si affollano immagini di disagio, crude, vere. Thomas fotografa tutto. È il “testimone” dell’oggettività: ne sente il peso e l’onnipotenza. È un fotografo, deve farlo. Lo fa.
Fotografa anche ciò che forse non dovrebbe fotografare. Qualcosa che lo trascina in un’imprevista investigazione poliziesca: le immagini di quello che gli sembra un tentativo d’omicidio. Cosa che scopre nel suo laboratorio, ingrandendo foto scattate a due amanti in un parco. Quando per completare la sua indagine e dargli così un senso, tornerà al parco, sarà solo per constatare che quello che gli è sembrato di vedere, ossia un cadavere, è scomparso. Forse mai esistito. Solo turbinii. Evanescenze. Rappresentazioni.
“Per me”, dice Antonioni “il delitto aveva la funzione di qualche cosa di forte, di molto forte, che ciononostante sfugge. E per giunta sfugge proprio a qualcuno, come il mio fotografo, che ha fatto dell’attenzione alla realtà un mestiere addirittura”.
Antonioni aveva iniziato le sue riflessioni sul rapporto realtà/finzione con La signora senza camelie, un film sul cinema, arte corresponsabile dal canto suo di tanti inganni ottici, datato 1953, dove si racconta di un’attrice (Lucia Bosé) schiava della propria avvenenza, della propria “immagine”, cosa che le esclude ogni “finzione”, ogni “ruolo”. Una riflessione poi presente in tutto il suo cinema.
Insomma: cos’è la realtà, cosa la rappresentazione? Meglio credere nell’una o nell’altra? Forse che la finzione dà più affidamento della concretezza? Antonioni non vuole dettare leggi. Ognuno vede il mondo con i propri occhi. Ed ogni spiegazione è in fondo già un inganno.
Quella partita di tennis giocata al termine del film, senza pallina e senza racchette, da un gruppo di mimi coinvolti e convinti, alla fine convince anche Thomas, che di quella pallina comincia davvero a sentire il ritmato rumore dell’impatto sulle inesistenti racchette.
Improvvisamente ha più peso quella palla immaginaria della sua inseparabile macchina fotografica (che infatti egli abbandona su un prato). Afferrare il mondo forse non è possibile. Quello che accade davanti agli occhi, quello che vediamo, non si può prendere per oggettivo. Obiettivo. Imparziale. Valido per tutti. L’età dell’immagine ha fatto in fine esplodere questa democratica illusione.
Il film di Antonioni, comunque lo si guardi (ed è Antonioni stesso a chiederci di sottoporre l’opera a “stress” di “lettura”), è soprattutto una riflessione sul potere fascinatorio, ma talvolta ingannevole, dell’immagine. Un potere che si origina dalla bellezza, un potere magnetico, seduttivo, ma che può dare stordimenti, confusione, incatenare. Può anche portare fuori strada, ma non può essere ignorato.
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Enzo Lavagnini
Regista, sceneggiatore, produttore e critico cinematografico. Suoi i documentari: "Un uomo fioriva" su Pasolini e "Film/Intervista a Paolo Volponi". Ha collaborato con Istituto Luce, Rai Cultura e Premio Libero Bizzarri. Tra i suoi libri, "Il giovane Fellini" , "La prima Roma di Pasolini". Attualmente dirige l'Archivio Pasolini di Ciampino
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