Se il male oscuro è la famiglia. I “Lacci” di Luchetti (e Starnone) da Venezia 77 ai cinema
In sala dal 30 settembre (per 01) “Lacci”, nuovo film di Daniele Luchetti che torna in coppia con Francesco Piccolo, adattando il popolare romanzo di Domenico Starnone. Una storia di famiglia che scoppia, anzi la storia di una famiglia scoppiata tenuta insieme a tutti i costi, generando disastri. Dopo gli anni della contestazione della famiglia, come slogan più urlato che praticato, molti si sono ritrovati a ripristinare le medesime dinamiche claustrofobiche e conformiste che volevano demolire per inventare nuovi modelli. Apertura di Venezia 77 …
Daniele Luchetti col suo Lacci apre l’edizione 2020 del Festival di Venezia mettendo in scena un campionario di vite desolatamente sprecate e martoriate da un male terribile e reso caparbiamente incurabile: la “famiglia”.
Non c’è male peggiore di quello che può affliggere due persone che scelgono di legarsi indissolubilmente e per questo fanno ricorso a tecniche di sopravvivenza a loro modo efficaci ma dagli effetti devastanti. Devastanti per i protagonisti, ancora di più per i figli, Anna e Sandro (che da grandi hanno il volto di due figli d’arte, Giovanna Mezzogiorno e Adriano Giannini), che assistono impotenti subendo i rancori, i ricatti e l’aridità di un rapporto ormai morto.
Le inquadrature ravvicinate dei visi mostrano quello che sembra solo dolore, paura e delusione, ma nella progressione del racconto, nel passare dalla “versione” di Vanda a quella di Aldo, scopriamo come tutti, anche i figli, sono vittime e al tempo stesso carnefici del proprio destino.
Come nel romanzo di Starnone da cui la pellicola è tratta, Aldo e Vanda scelgono i silenzi, l’elusione e l’ipocrisia come unica scappatoia per poter tirare avanti e ci riescono; infatti, con un credibile artificio di regia, nello scorrere del tempo li ritroviamo vecchi ancora insieme, Vanda giovane interpretata da Alba Rohrwacher e poi da Laura Morante; Aldo che da giovane ha il volto di Luigi Lo Cascio e poi di Silvio Orlando, il più bravo di tutti che quei panni ha già indossato nel 2016 a teatro, con l’adattamento firmato dallo stesso Domenico Starnone.
Come la leonessa coi cuccioli del documentario che passa in tv all’inizio della pellicola, Vanda bracca senza risparmio di energie ed espedienti estremi un marito che fugge dalla famiglia per reinventarsi un amore con Lidia, che come lui lavora ai microfoni di Radio Rai (bella scelta, lavorare con le parole per uno che nel privato precipita nell’afasia).
Aldo sembra sempre indeciso, come uno che per una volta vorrebbe non ordinare sempre pizza margherita ma poi non ci riesce. E però, come recita il detto, “ognuno sceglie la corda con la quale impiccarsi”. Peccato che qui nessuno arrivi alla morte per impiccagione (che sarebbe almeno liberatoria) ma a qualcosa di peggio, una vita soffocata da sensi di colpa e del dovere nonché dalle piccole e grandi vigliaccherie che consentono al male di consumare nel profondo senza arrivare ad un epilogo.
L’anno scorso a Venezia, nelle prime giornate del festival era passato Noah Baumbach con Storia di un matrimonio, racconto di un divorzio che struggeva l’anima; come anche in Revolutionary Road di Sam Mendes, tutto quello che c’è di sopito, non detto, le disillusioni e i tradimenti, portano alla fine dell’amore. Qui invece non finisce niente, anche se dovrebbe (e per lungo tempo abbiamo sperato).
I famosi lacci tengono stretto un matrimonio passato in giudicato e con la sentenza, inappellabile per scelta degli stessi condannati: “Fine pena, mai”. O era “finché morte non vi separi”?
Le storie di Baumbach e Mendes devastano, anche perché i sentimenti sono esposti e le guerre sono combattute; nel film di Luchetti c’è solo il vuoto pneumatico a cui si costringono Aldo e Vanda, nella piattezza totale che il regista mette in scena. E non capisci se sono loro a essere due mediocri o se è il loro fallimento a rendere mediocre la realtà. Se è vero che qui il tema non è tanto il tradimento ma la lealtà, si tratta soprattutto dell’incapacità di essere leali verso se stessi.
Per chi ha vissuto qualcosa di simile, Lacci può risultare il classico film-seduta psicoanalitica.
Seduta singola ma anche generazionale perché, diciamocelo fuori dai denti, dopo gli anni della contestazione della famiglia, come slogan più urlato che praticato, molti si sono ritrovati a ripristinare le medesime dinamiche claustrofobiche e conformiste che volevano demolire per inventare nuovi modelli. Ma è la presa d’atto del fallimento, e della consapevolezza che “un altro mondo è possibile”, che deve essere rimosso per tenere insieme i cocci, costi quel che costi, e il collante, lo si dichiara esplicitamente, non può che essere il silenzio e la finzione.
Gino Delledonne
Gino Delledonne
Architetto e docente universitario a contratto. Ha collaborato alle pagine culturali di vari giornali tra i quali "Diario" e "Archivio". Devoto del gruppo garage punk degli Oblivians.
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