Storie di riscatto e diritti (anche dei neri). Da Hollywood alla Casa Bianca (su Netflix)

Il riscatto del potenziale professionale delle donne, dei giovani, dei neri, degli omosessuali. E ovviamente il riconoscimento dei loro diritti. Sono i temi forti centrali in due titoli di punta della programmazione Netflix: “Hollywood” la serie di Ryan Murphy (tratta liberamente dal libro autobiografico “Full Service My Adventures in Hollywood and the Secret Sex Lives of the Stars” di Scotty Bowers, da cui è tratto anche il doc in onda il 16 maggio su Sky Arte) e, “Becoming La Mia Storia” dalla biografia di Michelle Obama, l’ex First Lady americana …

 

Non è solo una storia sporcacciona di un benzinaio ex marine che a Hollywood, al tramonto del muto, s’inventa una fiorente attività: una stazione di servizio con giovanotti in forma niente male – nonostante il rientro dalla dura seconda guerra mondiale – che al ritmo, e a volte anche al consumo, di Cole Porter, fanno soddisfacenti pieni – in base al gusto sessuale dei clienti – e certo non di benzina.

Alludo, all’incipit di Hollywood, serie tv targata Netflix di Ryan Murphy (tratta liberamente dal libro autobiografico Full Service My Adventures in Hollywood and the Secret Sex Lives of the Stars di Scotty Bowers su cui, chi ha voglia di saperne di più, si può vedere su Sky Arte, il giorno 16, un esauriente doc, già passato alla Festa di Roma 2017), proposta in epoca Covid dalle nostre parti e dunque in lingua originale con sottotitoli, visto che i doppiatori, come tutti, sono reclusi ancora in casa a pulire e cucinare.

E non è neanche o soltanto un film denuncia su quanto fosse inevitabile, per aspiranti attrici e attori in cerca di carriera, sottostare alle viziose brame di chi poteva farti lavorare, fosse regista, star, agente o produttore. E questo allora senza rischio mee too, quello che ha spezzato di recente ritmi e abitudini dell’instancabile Wienstein, seriale molestatore.

Direi che invece questa storia americana, spalmata in otto puntate e ben condita per palati gay, punta piuttosto su altri temi.
E non da poco: il riscatto del potenziale professionale delle donne; dei giovani; dei neri, o comunque non bianchi, e degli omosessuali.
E ovviamente del riconoscimento dei loro diritti.

Temi che, a distanza di più di tre quarti di secolo, hanno purtroppo ancora bisogno di essere fortemente difesi e sostenuti.
Qui, uno dei protagonisti, un aspirante sceneggiatore – anche lui part-time alla pompa di benzina per sbarcare il lunario – che s’innamora di un futuro Rock Hudson tontolone, di questo tipo di “handicap”, ne ha addirittura due: è nero e omosessuale.

È sua la sceneggiatura che nella fiction racconta la storia, per altro vera, di Peg, giovane attrice bianca che, sconfortata dalle troppe delusioni professionali, decide di buttarsi giù dall’H di Hollywood.
Bene. Il suo film, non solo si farà per riscattata volontà della moglie del proprietario degli Studios, fuori servizio post coito (naturalmente con l’amante) e dunque ricoverato all’ospedale, ma addirittura avrà come protagonista una giovane attrice di colore impegnata in quell’epoca per la prima volta nel cinema in un ruolo non di cameriera.

Un film nel film che avrà persino un doppio happy end. Non solo Peg ora Meg nera non si butterà giù da quella H da vertigine, ma la sua interprete vincerà pure l’Oscar insieme al film. Premio di massimo prestigio ottenuto con determinazione, coraggio e grandissima fatica.

Stessa fatica, coraggio e determinazione, stessi temi, esclusi quelli sessuali, ce li racconta in Becoming La Mia Storia Michelle Obama che il suo Premio di massimo prestigio l’ha incamerato con Barack alla Casa Bianca.

La regista Nadia Hallgren l’ha seguita e ripresa per tutti i 34 stati americani che l’ex First Lady ha attraversato per promuovere la sua autobiografia sfornata quando, finalmente libera per l’arrivo di Trump, è riuscita a riprendersi in mano la sua vita.

Da questo tour promozionale, di fruttuosa fatica, a giudicare dagli applausi di folle sempre oceaniche e acclamanti, è nato il documentario di un’ora e mezza che, non a caso certamente, Netflix ha presentato quasi contemporaneamente alla fiction su Hollywood.

Michelle – variando abiti eleganti ad altri in stile Elvis vecchio rock, e soprattutto sfoggiando lunghe unghie azzurre o blu, da perfetta Crudelia De Mon, sempre a suo agio tra la folla acclamante, e senza neanche una débâcle dopo migliaia di dediche a fan commosse alle lacrime – si racconta con empatica destrezza.

Ci presenta la mamma ossigenata che neanche il fatto che sua figlia sia finita da First alla Casa Bianca l’ha convinta a ridimensionare il debole che ha sempre avuto invece per il figlio maschio.

Ricorda che i suoi antenati erano schiavi; che lei proviene dal popolare South Side; che la gente scappava dai quartieri bianchi quando ci si stabilivano gli afroamericani; confessa di essere ancora un po’ risentita con Princeton che non l’aveva ritenuta adatta alla loro università. E si sbagliavano in effetti, visto che poi si è laureata con successo ad Harward e almeno fino a vent’anni non ha fatto uno sbaglio o perso un colpo. Spiega che mai si è sentita invisibile, grazie ai suoi genitori.

Le hanno insegnato che la forza si deve cercare dentro di sé per diventare donne forti, coraggiose e indipendenti.
Poi ha incontrato Barack. Pensava fosse un secchioncello, ma era molto di più con quella voce intensa da Obama.
Racconta della depressione post partum, ma anche che alla Casa Bianca chiedeva alle figlie di rifarsi il letto e occuparsi della propria biancheria perché la vita non è solo quella sotto ai riflettori. Di aver fatto col marito terapia di coppia. Della campagna elettorale del 2008, di aver capito a un certo punto quanto fosse opportuno smettere di parlare a braccio perché in politica è rischioso e quanto questo cambi un po’ l’anima di una persona. Dell’importanza della legge fatta da Obama per permettere il matrimonio agli omosessuali. Ma anche d’essere consapevole di quanto possa sembrare una provocazione il fatto di discendere da schiavi. “Entrambi, in ogni modo, speravamo che la gente fosse più pronta a noi”.

“Capisco – inoltre ci dice – quelli che Trump l’hanno votato ma non quelli che non sono andati a votare, soprattutto le donne e i giovani. Pensano che sia un gioco? Non lo è affatto. Sarà su loro che io spingo. E vedo in giro molta energia. È dei giovani che mi voglio occupare con una campagna basata sulla speranza e la convinzione di non essere diversi. Lo farò fino alla fine. Finché non mi diranno: Basta così nonnetta. Tornatene a casa”.

E a noi non resta che sperare, forse anche grazie al Covid, così snobbato da Trump, in un prossimo Happy End. Ma nel suo caso vero. Che riesca a lei, a Michelle, che punta molto sui giovani e sugli afroamericani, quello che a Hillary non è per niente riuscito.