Tra le macerie dell’Irpinia ferita. Gli scatti (etici) di Antonietta De Lillo in mostra nel 2021

Sarà ospite del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, alla sua riapertura nel 2021, “19:34/ Quaranta anni dopo/ La storia in presa diretta”, mostra fotografica di Antonietta De Lillo dedicata al tragico terremoto dell’Irpinia di quarant’anni fa. Allora ventenne, la regista de “Il resto di niente” ha percorso quegli scenari devastati raccontandone le ferite con grande delicatezza, senza farsi notare, in bilico tra lucida osservazione e presa diretta dell’ineffabile. Un’anteprima virtuale della mostra è stata presentata al pubblico lo scorso novembre …

La conosciamo per gli appassionati documentari in cui scruta ‘O Cinema (1999) in tutte le sue metamorfosi linguistiche, in corsa ad afferrare quel Resto di niente (2004) prima che trascolori sui profili caldi delle Periferie di Napoli (2003). I suoi videoritratti sono un intimo viaggio a tappe tra la cinefilia “terrorista” di Lucio Fulci, i fotogrammi “clandestini” di Angelo Novi, fotografo di scena (1992) e il flusso poetico di Alda Merini, in La pazza della porta accanto (2013).

Il cinema di Antonietta De Lillo è un dettato storico ed emotivo in continuo divenire, che lega passioni irriverenti e lotta di classe, frammenti di vissuto e memoria collettiva, in una tessitura narrativa partecipata e mai conclusa. Ma questa volta la sua ricerca di “splendido vero” si posa sul volto dolente di una pagina buia della sua terra: il terremoto che il 23 novembre del 1980 ha raso al suolo l’Irpinia. E che Antonietta, allora appena ventenne, ha raccontato da fotoreporter attraversando la geografia spettrale dei centri più colpiti dal sisma, raccontando il grido afono delle vite stroncate, insieme agli sparuti residui umani sopravvissuti alla catastrofe più violenta del secondo dopoguerra.

Scatti che nel 2021 saranno accolti al MANN, in una mostra, per commemorare quei novanta secondi di terrore. E di cui un’anteprima è stata recentemente presentata online da Marechiarofilm (società di produzione della regista napoletana) e dallo stesso Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Siamo a Sant’Angelo dei Lombardi e a Laviano, dove alle 19:34 di quell’ordinaria sera di novembre, gli aghi del sismografo hanno iniziato ad oscillare come impazziti nello spazio eterno di 90 secondi, spazzando via 3000 vite. “Ricordo perfettamente cosa ho provato nel trovarmi lì a fotografare interi paesi ridotti a un cumulo di macerie, con gli uomini che scendevano dalle montagne portando con sé lenzuola e coperte che avvolgevano cadaveri”, dice la De Lillo del suo antico archivio in bianco e nero.

Della più ampia collezione originale l’anteprima online ci mostra solo dieci scatti, una densa retrospettiva dell’accaduto accompagnata dai titoli sensazionalistici dei quotidiani e dalle testimonianze dirette di chi risponde alla rituale domanda:“Dov’eri tu quando è accaduto?”.

“Ho visto morire il Sud” recita una delle didascalie. È Alberto Moravia che scrive su L’Espresso il 7 dicembre di quell’anno sciagurato, prestando voce a questa cronaca tutta visiva per raccontare il caleidoscopico mutare delle emozioni post-traumatiche. La febbrile attesa dei soccorsi è un crescendo che trasforma la speranza in stupore e sbiadisce poi in rassegnazione disgraziata.

Francesco Durante invece, ci porta a spasso per il folclore locale scomodando i costumi ancestrali dell’antica Grecia: il dramma delle donne terremotate si accosta allo spettacolo delle prefiche, donne pagate da tempi immemori per cantare lo strazio di una perdita con le famose nenie. Sullo sfondo le erculee braccia delle ruspe contro polverose montagne di detriti. Addirittura c’è chi scava a mani nude, in una titanica lotta contro il tempo.

Sandro Pertini si spende in un accorato elogio alla generosità umana, una “solidal catena” di fratellanza apolitica e disinteressata per stringersi contro i colpi bassi sferrati da una natura matrigna. Perché, a sua detta, “(…) il modo migliore di ricordare i morti è quello di pensare ai vivi”.

E ancora, il testamento storico di chi è riuscito prodigiosamente ad ingannare le trappole della morte: Angelo guardava una partita di calcetto prima di rotolare di sotto, Carmine era appena diventato padre quando il solaio dell’ospedale è crollato insieme ad uno dei dottori, mentre Tito correva a ritirare dei negativi prima che il paese si sciogliesse come cera al sole.

Il dialogo tra parole e immagini di questa narrazione in scala di grigi sembra restituire una voce ad un dramma inarticolato, seppellito per sempre dalle macerie. Ma, più di tutto, c’è un’etica nello sguardo della De Lillo e nel suo modo di relazionarsi al dolore, che racconta tutta la sua sensibilità artistica: la fotografa mappa le ferite di questi borghi fantasma con grande delicatezza, senza farsi notare, in bilico tra lucida osservazione e presa diretta dell’ineffabile.

Il suo occhio si posa leggero, rispettoso, sui quadri catastrofici dell’entroterra campano, mantenendo sempre una rigorosa distanza dai volti in cui inciampa. Niente patetiche invasioni di campo, né primi piani disturbanti, solo la compostezza e la dignità assorta di chi abbraccia il trauma della perdita tra bare e detriti, come in un Pietà rivisitata.

L’estro autoriale della fotografa ha saputo restituire al pubblico, a distanza di decenni, un virtuoso pezzo d’arte al passato da affiancare al tragico presente che stiamo vivendo. Una rassegna digitale che parla all’umanità che resiste, stoica, alle avversità della vita e che ci ricorda di ricordare per rinascere. Una lezione dal passato in cui ci riscopriamo fragili ma anche straordinariamente resilienti.