I bambini che si sono stufati di guardare. Spunti di riflessione da “Favolacce” (a Greta)
“Favolacce”, l’acclamato film dei frattelli D’Innocenzo, chiude (per ora) una lunga parabola nella storia del cinema: quella dei bambini, chiamati in causa frontalmente già da Vittorio De Sica nel ’43 con lo storico film, “I bambini ci guardano”. Da semplici spettatori nel cinema degli anni ’40 a ultimi baluardi contro l’apatia nel cinema contemporaneo e non solo. Vedi il caso di Greta Thunberg. Saranno davvero i ragazzini a salvare il mondo o forse il cinema?
Nel 1943 uscì I bambini ci guardano di Vittorio De Sica, un film che spesso viene collocato sullo sfumato confine d’inizio del Neorealismo, in quella zona grigia tra un cinema che stava morendo, quello fascista, e uno che stava per nascere. In realtà quel film portava con sé ancora molto dell’Italia del Ventennio. Era la storia di una famiglia sfasciata da una relazione extraconiugale, ma ovviamente a far la parte dell’adultera era la donna ed il povero padre, fedele e innamorato, doveva badare da solo al figlio e soffrire per il suo amore non ricambiato.
Al di là dell’ottica patriarcale innegabile che ancora aleggiava sul film, il titolo svelava il principio morale su cui De Sica aveva costruito tutta la narrazione: i bambini sono le vittime delle azioni degli adulti. Ed infatti i primi piani di quel bimbo (Luciano De Ambrosis) mentre il padre prova a ricomporre i cocci di un matrimonio ormai finito sono strazianti. Qualche anno dopo, De Sica applicherà lo stesso principio con l’indimenticabile Bruno di Ladri di biciclette. Ma quel titolo, I bambini ci guardano, era un monito preciso ai genitori, una chiamata alla responsabilità individuale che si manifestava nello sguardo del bambino.
Questa lunga introduzione serve in realtà per parlare di un altro film, Favolacce, secondo lavoro della prodigiosa coppia composta dai gemelli Fabio e Damiano D’Innocenzo, che dista dal lavoro di De Sica la bellezza di settantasette anni. Ambientato in una Spinaceto che sembra più una cittadina a stelle e strisce, con villette, giardini, piscine e quant’altro, ha ancora i bambini come protagonisti. Ma sono dei bambini diversi, che non si accontentano più di intuire i drammi degli adulti e di guardare, al contrario sono gli unici che quei drammi riescono a capirli e sentono l’impellenza di agire.
Dal 1943 ad oggi i bambini hanno forse capito questo: guardare gli adulti è un esercizio sterile. Bisogna prendere in mano le redini delle cose, perché limitarsi ad aspettare che lo facciano i genitori vuol dire condannare tutto all’immobilità. È una consapevolezza che pervade anche la letteratura, basti pensare a Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante, e si estende fino alle questioni di strettissima attualità, con le lotte per l’ambiente di ragazze e ragazzi guidati dalla giovanissima Greta Thunberg, e persino alla nostra industria cinematografica, in cui ci sono voluti i ragazzi del Cinema America per riportare alla ribalta lo strapotere di distributori e produttori.
Nel cinema dal bambino di De Sica a quelli dei D’Innocenzo è cambiato tutto. I ragazzini non sono più figure al servizio degli adulti, ma li surclassano e li mettono sul banco degli imputati. In alcuni casi letteralmente, come in Cafarnao di Nadine Labaki, in cui un bimbo intenta un processo contro i suoi genitori, rei di averlo fatto venire al mondo.
La questione della responsabilità è centrale, se negli anni ’40 ricadeva unicamente sugli adulti oggi sono proprio i bambini ad assumersela in pieno. Un passaggio di cui si possono vedere i segni: è un bambino arrabbiato quello dalla noncuranza dei genitori quello di De Sica, Kubrick e King fanno del piccolo Danny l’unico in grado di vedere e dunque la chiave per comprendere e smascherare il male in Shining, infine oggi con Favolacce i bambini sanno che in un mondo svuotato di ogni bellezza bisogna compiere dei gesti esemplari.
La parabola cinematografica dei bambini continuerà e certo continueranno a esistere sul grande schermo bambini che non hanno voglia né di guardare né di agire. Ma di tanto in tanto si troveranno dei bambini consapevoli, delle realtà disperate da redimere, degli autori che abbiano il coraggio di raccontare queste storie.
È ciò che è accaduto con Favolacce, per cui è forse limitativo gridare al capolavoro, ma di cui non si può non riconoscere lo spessore. Il coraggio di affrontare temi scabrosi, la capacità di tradurre un sentimento, nel nostro caso il disagio, in dialoghi e immagini: non c’è molto altro da chiedere al cinema. Resta ancora da chiedersi se ci sia altro da domandare ai bambini.
Tobia Cimini
Perditempo professionista. Spende il novanta percento del suo tempo leggendo, vedendo un film o ascoltando Bruce Springsteen. Nel restante dieci, dorme.
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