La donna che si fece pianta. Dalla Corea il caso cine-letterario 2016

È “La vegetariana” di Han Kang, scrittrice sudcoreana e figlia d’arte. Una vera star nel suo paese, ora in ascesa anche in Occidente grazie al Man Booker International Prize 2016 per questo suo intenso e rarefatto romanzo, già diventato un film, molto apprezzato al Sundance Film Festival. Storia di una ribellione al femminile che passa attraverso il rifiuto della carne…

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Tra i veri casi letterari dell’anno che sta per finire c’è La vegetariana di Han Kang, quarantaquattrenne scrittrice sudcoreana, figlia d’arte, già piuttosto nota in patria, e quasi sconosciuta in Occidente. Dove questo breve, intenso e rarefatto romanzo, l’ha invece catapultata sul podio degli autori da medaglia: a maggio ha vinto l’edizione 2016 del Man Booker International Prize, il più importante premio letterario del Regno Unito dedicato alla narrativa tradotta, superando nello sprint finale la nostra Elena Ferrante e il suo Storia della bambina perduta.

Un libro importante, che sta riscuotendo un grandissimo – e meritato – successo ma che in Sud Corea è stato un caso letterario molto discusso: pubblicato originariamente in tre parti nel 2007, il romanzo nel 2010 è diventato anche un film, diretto da Lim Woo-Seong e molto apprezzato al Sundance Film Festival. (vedi trailer e immagini).

Naturalmente, niente a che vedere con Raw, commedia-horror francese scritta e diretta da Julia Ducournau presentata a Cannes 2016, dove una studentessa di veterinaria, figlia di vegetariani, comincia a mangiare carne cruda e sconvolge a tal punto il pubblico che al Toronto Festival ci sono stati svenimenti e malori.

Se Raw non vi attira, La vegetariana è invece un libro da leggere, un libro doloroso e trattenutissimo, che rivela la sua matrice orientale proprio nella mancanza di psicologismi e speculazioni intellettuali, nel silenzio di dialoghi distillati come essenze, nel pudore con cui racconta i tabù e i diktat di una cultura ancora patriarcale e violenta affidando la ribellione, e forse anche la denuncia, al gesto sempre rivoluzionario dell’assenza.

E val la pena elogiare subito il lavoro della traduttrice Milena Zemira Ciccimarra per l’efficacia con cui ha saputo tradurre la scrittura asciutta e nitida della Kang nell’edizione pubblicata in Italia da Adelphi. Perché ogni parola di questo libro sembra destinata ad andare oltre la sfera del verbale per consegnarci immagini indelebili, oniriche e morbose, condite di suoni, respiri, sgocciolii, trasudanti odori, lacrime, succhi.

La cucina di una delle prime pagine, per esempio, dove Yeong-hye viene sorpresa in piena notte, circondata dai sacchetti di carne diligentemente surgelata che sta scongelando e buttando nella spazzatura. “Ho fatto un sogno”, replica semplicemente lei alla richiesta di spiegazioni del consorte banale e banalmente cinico. È il suo sguardo che ci presenta per primo la protagonista del romanzo, protagonista senza voce, senza io narrante, senza colpe e senza strumenti se non quelli, appunto, del silenzio, del rifiuto, della sparizione.

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Lui l’ha scelta proprio perché era “insignificante”, né alta né bassa, né fresca né affascinante: un aggregato vivente di manchevolezze che mai e poi mai potrebbe innescare in lui la miccia del confronto, del disagio, dell’inferiorità.
E invece, Yeong-hye smette di mangiare carne. Un gesto semplice, ma non così consueto in Sud Corea, dove la cucina tradizionale, ricca di pietanze carnivore, è anche espressione di valori fortemente difesi.

Il sangue, l’odore, le immagini cruente dei buoi squarciati dei suoi sogni, vietano a Yeong-hye di continuare a cucinare, toccare, mangiare carne. Un capriccio, una necessità, una fuga, una protesta? La giovane donna non descrive né qualifica mai il suo gesto ed è sull’orlo di questo vuoto narrativo che Han Kang costringe il lettore ad affacciarsi, ad interrogarsi, per riempirlo delle risposte di ciascuno.

Il rifiuto della sua protagonista, che scivola pian piano nel digiuno assoluto, mentre attorno la famiglia, la società, i medici si affannano ad etichettarne i comportamenti, sono lo specchio scuro dove ognuno può riflettere le proprie paure, la follia personale e collettiva, la mancanza di senso e di spessore, il vuoto crudele dei sentimenti costretti dalle convenzioni, il ripiegamento autistico di ogni atto creativo.

Lo sa bene il cognato di Yeong-hye, il marito di sua sorella, video-artista spossato a cui è affidato lo sguardo della seconda “stazione” del libro. Ossessionato dal corpo ormai esanime della giovane donna, la dipinge di petali setosi, carnosi sepali e pistilli, la possiede e la filma, in un gesto onnivoro che mescola gli elementi e i regni, in una ipotesi di trascendenza che lacera ogni principio di realtà, ogni residuo di arrendevolezza.

E infatti, nella terza parte, troviamo Yeong-hye arroccata nella fortezza inattaccabile della sua corporeità evanescente e quasi svanita, ultimo baluardo di una lotta strenua, lucidamente folle. Anche sua sorella la interroga e finisce per interrogare se stessa sul senso di quel no che anche lei è stata tentata di pronunciare, scegliendo la strada dell’obbedienza, tradendo i suoi sogni. Dov’è Yeong-hye? È sprofondata nell’ultimo girone della malattia, implosa nelle carni trasparenti, tra gli organi esausti e denutriti, o è immensamente libera, albero tra gli alberi, creatura di luce e d’aria, foresta fiammeggiante di sogni?

Sullo sguardo “cupo e insistente” della sorella maggiore si chiude il libro. Sul dilemma eterno che le due donne rappresentano, il sogno e il reale, la libertà e la responsabilità, il senso ultimo e inaccessibile dell’io che affronta il terrore, la rabbia, il tormento e l’inferno pur di affermare il suo irriducibile diritto ad esistere.