Parola di un anarchico, scrittore e muratore del genere: “Fulci Talks” arriva in sala

In sala dal 3 giugno (per Marechiaro) il doc di Antonietta De Lillo “Fulci Talks. Conversazione uncut con Lucio Fulci”, tratto dalla lunga intervista (realizzata nel 1993 con Marcello Garofalo) al regista. Racconto-confessione di un grande (e a lungo sottovalutato) innovatore del cinema di genere, dalla commedia all’horror: tra humour nero, incubi visionari e professione di “mite anarchia”. Presentato al Noir in Fest …

«Credo che, in articulo mortis, diranno pure che sono intelligente»: battuta fulminante (tra le molte) che si lascia sfuggire Lucio Fulci (1927-1996) nel doc Fulci Talks di Antonietta De Lillo. Il film, in anteprima gratuita l’8 marzo su MYmovies per il trentesimo Noir in Festival (e dal 10 marzo on demand su CG Digital e Chili), è tratto dalla lunga video-intervista realizzata nel giugno 1993 dalla regista (e produttrice con la sua Marechiarofilm) insieme al critico Marcello Garofalo.

Quasi un’ora e mezza in cui il “poeta del macabro” (così lo avevano soprannominato in Francia) si racconta e racconta il suo cinema (e non solo), proiettando un’ombra hitchockiana sul muro e condendo aneddoti e riflessioni con quell’ironia che era un tratto distintivo del regista e dell’uomo. Un’(auto)ironia che, appunto, non risparmia la sua stessa rivalutazione critica tardiva, arrivata dopo anni di snobismo, anzi di autentico «razzismo», rimarca, da parte di chi distingueva (e distingue) con miope rigidità tra cinema “d’autore” e cinema (spregiativamente) “di genere”.

E invece Fulci autore lo è stato, e proprio all’interno di quei generi (dal western all’horror passando per il giallo-thriller) che si divertiva, da «terrorista» o «evaso riacciuffato» (come dice lui) a far implodere: fra eccessi splatter, trovate visionarie e temi riconoscibili («il dubbio e il peccato», spiega, sono i più ricorrenti). Un autore che ha influenzato cineasti d’Oltreoceano come Sam Raimi e Quentin Tarantino, anche loro sperimentatori caustici all’insegna dell’umorismo nero e della commistione di materiali eterogenei.

Colpisce ed emerge dal doc proprio la ricchezza e varietà di spunti culturali impiegati nella bottega dell’artigiano (riscoperto artista) Fulci: cinema e arte visiva in genere, dalle avanguardie dadaista e surrealista (gli occhi maciullati) ai film del cuore (Zéro de conduit, di Jean Vigo, citato in Manhattan Baby), ma anche non poca letteratura, si pensi a Henry James in Quella villa accanto al cimitero. Non a caso, dice citando l’amico Vittorio Metz, un regista deve essere «scrittore e muratore», perché narra storie e perché lo fa attraverso il (duro) lavoro con la troupe.

E, a proposito di definizioni, sono tante ed emblematiche dei suoi molteplici lati e periodi quelle che dà di sé l’intervistato. «Un errore di Totò», che lo volle per la prima volta dietro la macchina da presa col lungometraggio I ladri (prima, però, c’era stato l’apprendistato col maestro Steno, per cui Fulci co-sceneggia anche Un americano a Roma). Un «bugiardo, non sul lavoro, nella vita», fatta anche di tragedie (il suicidio della moglie mentre lui stava girando Beatrice Cenci) e di grandi passioni che lo hanno salvato (oltre al cinema, la barca a vela). Un «anarchico mite», dichiaratamente a sinistra ma ostile a conformismi e ingerenze partitiche che si traducono spesso in censura: sempre «ignobile» e «barbara», e sempre priva d’ironia, come conferma il boicottaggio contro il satirico All’onorevole piacciono le donne.

Ma sono tanti i casi in cui il cinema di Fulci si dimostra socio-politicamente urticante: dal profondo Sud sospeso tra autostrade e superstizioni di Non si sevizia un paperino (che nelle intenzioni originali avrebbe dovuto essere ambientato tra i capannoni degli immigrati a Torino) alla sanguinolenta metafora del potere di Zombi 2. Passando per la critica al regime pontificio di Beatrice Cenci («una civiltà», chiosa Fulci, «in cui prima ti torturano e poi ti mandano all’Inferno») e persino per il libero adattamento da Jack London Zanna bianca, con cui il regista voleva «dimostrare che l’uomo è crudele, cattivo e atroce e solo l’animale antropomorfo ci salverà». Insomma, più politico di certi autori «coccolati dalla politica», come afferma l’intervistato, che ai giovani registi italiani raccomanda piuttosto di «andare al cinema e amare tutto il cinema», senza preconcetti.

Come già nell’intenso doc-conversazione con (e su) Alda Merini La pazza della porta accanto, Antonietta De Lillo dialoga due volte con l’artista al centro del film: la prima nell’intervista, la seconda, non meno significativa, nel riprendere e rielaborare a posteriori i materiali dell’incontro. È una grammatica filmica essenziale e insieme evocativa quella di Fulci Talks, con un lavoro sull’immagine e sul montaggio (tra barre televisive e finti sganci del nastro) teso a dare l’impressione di un vecchio filmato “uncut”, sottratto all’oblio della censura. Dove non si omettono incidenti e interruzioni dovuti a una videocamera che si crede spenta o a un telefono che squilla. Interferenze e irregolarità da altri luoghi e mondi: come quelle lasciateci in eredità da un anarchico “scrittore e muratore” del nostro cinema.