Ritorno in Vietnam. Spike Lee scende in piazza per ripassare i fondamentali della cultura black
Su Netflix (dal 12 giugno), “Da 5 Bloods- Come Fratelli” nuovo atteso ultimo film di Spike Lee per fare i conti con uno dei grandi fardelli d’America, il Vietnam. È un film che sembra scritto per queste settimane, per le piazze del dopo-George Floyd. È un contenitore di messaggi e controinformazione mirata. Serve allo scopo. È uno “Spike Lee joint” a denominazione d’origine controllata e ad uso squisitamente, volutamente politico…
Donald Trump è stato eletto anche col voto di molti afroamericani. Nei suoi 35 anni di militanza cinematografica a favore della comunità black, Spike Lee si è sempre concesso il lusso di bacchettare le contraddizioni “in seno al popolo”, per dirla con Mao Tse Tung.
È un suo indiscutibile merito. Non sorprende perciò che il personaggio-chiave di questo suo attesissimo Da 5 Bloods- Come Fratelli targato Netflix (in rete dal 12 giugno) sia un afroamericano trumpiano a 360 gradi, selfish e individualista, fan del muro col Messico e razzista coi “musi gialli”.
Da 5 Bloods fa i conti a posteriori con uno dei grandi fardelli d’America, la guerra del Vietnam. Primo obiettivo del cineasta che avrebbe dovuto presiedere Cannes 2020, ricordare che la sua gente ha fornito il 32 % delle truppe, pur costituendo appena l’11 % della popolazione Usa.
Lee ha 63 anni, ai tempi era ragazzino, per quella guerra fa appello alle sue memorie di cinema: il suo “joint” (come da sempre definisce i suoi lavori) è un plateale omaggio ad Apocalypse Now. È un fiume in piena di citazioni visive e non, compreso Wagner, compresi il viaggio in battello e la tana di Kurtz-Marlon Brando nella giungla.
L’avventura di quattro veterani che tornano nel Vietnam occidentalizzato per recuperare le spoglie di un carismatico commilitone – ma soprattutto il tesoro in lingotti sepolto durante un’azione – in realtà è poco più che un pretesto. Spike Lee è un animale urbano e le sequenze belliche in flash back sono modeste quanto quelle di Miracolo a Sant’Anna, il suo brutto film italiano.
Giocando di sponda tra il capolavoro di Francis Ford Coppola e Il tesoro della Sierra Madre, il classico di John Huston del 1948, il Nostro in realtà vuole dire due cose: che il miraggio dell’oro ti fa smarrire ideali e fratellanza, e che in Vietnam gli afroamericani hanno combattuto la guerra sbagliata. Lo aveva insegnato ai commilitoni, alla notizia dell’assassinio di Martin Luther King, Stormin’ Norman, l’amico (e leader) caduto. Non a caso il regista ha affidato questo ruolo profetico a Chadwick Boseman, l’attore-icona di Black Panther, primo supereroe di colore dello schermo.
Didascalico fin dall’incipit – con Muhammad Alì che motiva la sua obiezione di coscienza al servizio militare in Vietnam – Da 5 Bloods è soprattutto una summa dei “fondamentali” della cultura afroamericana, i pilastri secondo Spike Lee: da Malcolm X ad Angela Davis, da Bobby Seale a Edwin Moses passando per Aretha Franklin, ognuno col suo bravo cartello inteso a rinfrescare la memoria.
Il senso è che quella memoria è la bussola, se la perdi non vai da nessuna parte, hai già perso. Marvin Gaye è onnipresente, con i pezzi del suo album capitale, What’s Going On, intonati dal gruppo come inni e preghiere.
È un film che sembra scritto per queste settimane, per le piazze del dopo-George Floyd. Non manca nemmeno il fatidico Black Lives Matter al quale Spike Lee ha appena dedicato su Twitter un corto di montaggio, ripescando il profetico strangolamento da parte di un poliziotto bianco del suo Do The Right Thing (“Fai La Cosa Giusta”) del 1989.
Trump? “Un membro del Ku Klux Klan nello Studio Ovale”. Su George Washington, padre degli Stati Uniti d’America, si precisa che possedeva “comunque” 123 schiavi. C’è il lusso estremo di “errori” che farebbero inorridire qualsiasi regista “normale”: Spike Lee non si prende nemmeno il disturbo di ringiovanire nei flash back d’epoca i suoi quattro veterani, Delroy Lindo, Clarke Peters, Norm Lewis e Isiah Whitlock, Jr. Per la sintassi del cinema, è un’eresia.
Non potrei dire che Da 5 Bloods è un bel film, coi suoi bianchi puramente simbolici – Jean Reno e Mélanie Thierry – chiamati a incarnare rispettivamente il Male e il Bene dell’eredità belligerante francese in Indocina. È un contenitore di messaggi e controinformazione mirata. Serve allo scopo. È uno “Spike Lee joint” a denominazione d’origine controllata e ad uso squisitamente, volutamente politico.
fonte Huffington Post
Teresa Marchesi
Giornalista, critica cinematografica e regista. Ha seguito per 27 anni come Inviato Speciale i grandi eventi di cinema e musica per il Tg3 Rai. Come regista ha diretto due documentari, "Effedià- Sulla mia cattiva strada", su Fabrizio De André, premiato con un Nastro d'Argento speciale e "Pivano Blues", su Fernanda Pivano, presentato in selezione ufficiale alla Mostra di Venezia e premiato come miglior film dalla Giuria del Biografilm Festival.
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