Storia di un adattamento dimenticato. Luciano Tovoli racconta il suo “generale” e lo riporta a Tirana

Il 15 dicembre, nella cornice del Bunk’art 1, è tornato a Tirana “Il generale dell’armata morta” (1983) di Luciano Tovoli, tra i più noti autori della fotografia e qui in veste di regista, per l’unica volta. È un film dimenticato, quasi carbonaro, rimasto nelle maglie del fallimento della Gaumont e nei cassetti della Rai. Una storia che smonta il luogo comune degli “italiani brava gente” a partire dal romanzo dello scrittore albanese, Ismail Kadaré tradotto in Italia grazie al film. “È stato Marco Ferreri come produttore a farmi leggere quel romanzo. E Mastroianni che lo conosceva ha subito accettato, anzi ha detto che con me regista avrebbe fatto anche altri due film” …

La gestazione di un film è sempre un’avventura, in qualche modo. Ce ne sono di semplici, di incredibili, di infinite. Dietro ogni locandina che ha riempito le vetrine all’entrata delle sale c’è sempre un lavoro incessante di ricerca, sia essa di soldi, di sceneggiatori, di luoghi, di soluzioni a immancabili imprevisti.

È stato così, ovviamente, anche per Il generale dell’armata morta, film del 1983 tratto dal romanzo omonimo dello scrittore albanese, Ismail Kadaré, pubblicato in Francia vent’anni prima. In Italia, di quel romanzo non se ne sapeva nulla, nonostante fossero proprio gli italiani i suoi protagonisti. Un prete e un generale, nello specifico, inviati in Albania per recuperare i corpi dei soldati italiani morti durante l’occupazione fascista di quella terra, cominciata nel 1939.

Il film poteva contare su un cast di altissimo livello: Marcello Mastroianni, Anouk Aimée, un giovanissimo Sergio Castellitto, Michel Piccoli. Ma anche su una firma decisamente intrigante, quella di Luciano Tovoli, qui esordiente alla regia ma già da anni riconosciuto autore della fotografia, che aveva dato luce, solo per citarne due, a Suspiria di Dario Argento e Professione: reporter di Michelangelo Antonioni.

A quasi quarant’anni di distanza, Tovoli ci racconta la storia di questa sua unica regia: la genesi e la lavorazione del suo Generale, come è stato adattare Kadaré, la sfortuna di una mancata distribuzione seguita al fallimento della Gaumont. E la Rai che l’ha “dimenticato” nei suoi cassetti.

Qual è il primo ricordo che le viene in mente riguardo al Generale?
Quando Marco Ferreri mi propose di finanziarmi un film come regista. Io ho fatto due film con lui. Dopo che avevamo girato a New York la prima parte di Ciao maschio, in cui c’era anche Marcello Mastroianni, invitai Ferreri a cena e gli raccontai alcune storie che avevo in testa per fare un film come regista. Lui mi rispose che erano interessanti ma andavano sviluppate, mi consigliò invece di leggere un romanzo di uno scrittore albanese, che si chiama Ismail Kadaré.
Penso che lui non l’avesse letto e l’avesse sentito dire, perché in Francia era molto conosciuto, mentre in Italia non era stato tradotto. Mi disse che Mastroianni aveva una copia, di chiedere a lui di farmela leggere.
Io la mattina dopo andai da Marcello e lui mandò il suo segretario a casa per portarmi il libro. Lo lessi in una notte, in francese. La mattina dopo gli chiesi: “Ma tu lo faresti il generale nel Generale dell’armata morta con me come regista?”. Lui chiese carta e penna e sul foglio scrisse: “Io non solo sono disponibile a fare Il generale dell’armata morta con la regia di Luciano Tovoli, bensì anche altri due film”.
Ecco, questo mi viene in mente: la disponibilità di Marcello Mastroianni che non venne mai meno, un grande attore che stava sempre all’erta se vedeva un talento vicino a sé. E secondo me l’aveva visto in me, come l’aveva visto anche Ferreri.

La lavorazione fu semplice? Ho letto che volevate girare in Albania ma ci furono dei problemi.
Hai letto bene, la storia però è incompleta. Io andai a Parigi, che già frequentavo per via dell’amicizia con Jacques Perrin, e acquistai i diritti del libro. Proposi il ruolo del cappellano a Michel Piccoli, che mi disse che voleva produrre il film. Tornai a Roma, lo raccontai a Marco Ferreri e lui mi disse che se c’era Piccoli lui non l’avrebbe fatto, perché avevano litigato in quel momento. Gli risposi che ormai ero partito, l’avrei fatto lo stesso. E quindi mi misi a cercare produttori in Italia da solo e trovai la Gaumont, che fu poi la rovina del film in un certo senso.
Intanto facevamo i sopralluoghi in Albania con Piccoli, tenevamo al corrente Mastroianni e io avevo scritto una sceneggiatura, presuntuosamente da solo, ma secondo me andava bene. Rivedemmo i dialoghi con Piccoli, era facile perché recitava tutte le parti, per uno sceneggiatore è comodo avere un attore che può recitare tutti i personaggi. Visto che eravamo degli amatori, la facemmo vedere a Jean-Claude Carrière, che era lo sceneggiatore di Buñuel ed era amico di Piccoli, con cui aveva fatto diversi film. Ci disse che non voleva toccare niente, ma voleva aggiungere una lettera, che rimase come sua firma.
Dopodiché eravamo pronti a girare, il film era maggioritariamente francese. Io dovetti tornare a Roma per qualche giorno. Mentre stavo mangiando con mia moglie in una taverna, si presentò il direttore di produzione, pallido come un lenzuolo, dicendomi che era successa una catastrofe. Per me la catastrofe al cinema non è mai che il film non si fa, sono altre.
Alle quattro di mattina li avevano svegliati dagli studi. A Tirana hanno degli studi come Cinecittà, più piccoli e costruiti dal fascismo  durante l’occupazione italiana. Gli dissero che il film non si poteva fare più in Albania perché i camion che avevamo chiesto erano occupati per la raccolta delle mele. Una stronzata. Li avevano portati all’aeroporto, dove avevano ancora al posto della pista i rotoli di gomma bucherellati dell’invasione americana, e li avevano messi su un aereo romeno che di solito trasportava albanesi in Italia.
Piccoli stava facendo un film in Jugoslavia e il direttore di produzione non aveva il coraggio di dirgli che il film fosse saltato. Lo chiamai io, era disperato perché aveva già dato una bella quantità di soldi e con quei paesi non era facile riaverli indietro, però ci riuscì.

Il set si spostò in Abruzzo …
Sì di quei tempi lì stavo organizzando in Abruzzo il primo festival internazionale dei direttori della fotografia, che abbiamo fatto dal 1981 al 1991, e vedendo quei paesaggi mi dicevo che le montagne erano molto più belle. Tant’è vero che girandolo in Italia decisi di cambiare formato e passare al Cinemascope panoramico.
In tre mesi girammo il film, andò tutto benissimo. Uscì in Francia, con critiche mirabolanti (anche se non è che si fa un film per la critica). In Italia non uscì per niente, perché contemporaneamente fallì la Gaumont e cinque film rimasero bloccati. La Rai mi disse a un certo punto che loro dovevano mandarlo in onda e una volta passato in televisione l’uscita commerciale era bruciata.

Il romanzo e il film smontano il mito degli “italiani brava gente”, andando a raccontare i morti delle nostre invasioni coloniali. Pensa che aver toccato un tale tabù possa aver influito sulla diffusione del film?
No, penso di no. Io ho vissuto tutte le fasi, appena abbiamo annunciato il film abbiamo subito trovato un editore che ha stampato il romanzo inedito da noi [Longanesi, n.d.r.]. Non c’è stato nessun blocco, nessun sequestro, anzi il libro uscì con la fascetta del film e Kadaré fu subito conosciuto.
Il fallimento è il fallimento della Gaumont, che esiste e ha trascinato con sé altri cinque film. Non credo che il ministero della Difesa, dopo averci permesso l’uso di un incrociatore a La Spezia [in foto, n.d.r.] e aver letto la sceneggiatura vera, possa aver in qualche modo influito sulla decisione del giudice. Il curatore fallimentare non ha liberato il film nonostante le nostre proposte, ma non ha liberato neanche gli altri.
Non ho mai letto un commento di questo tipo. Certo, Tullio Kezich nella sua recensione – una delle poche che uscì in Italia, perché il film è uscito solo in televisione, un po’ carbonescamente – ha scritto: “un tema per cui ai tempi de L’armata Sagapò Renzo Renzi e Guido Aristarco rischiarono la galera”. Loro effettivamente furono accusati, ma da noi non si manifestò mai niente e nessuno.
Non so dove avrebbero potuto agire, insomma. Forse potevano censurarlo in Rai, ma l’hanno fatto vedere solo una volta. È un film di cui a loro non frega niente per principio, non è nella loro mentalità. Ho più fiducia nelle autorità militari che ci hanno dato l’incrociatore dopo aver letto la sceneggiatura che nella Rai che lo tiene nascosto soltanto per insipienza.

La sceneggiatura cambia qualcosa rispetto al romanzo. Secondo lei, un certo grado di “tradimento” è necessario nel passaggio da libro a film?
Penso proprio di sì. È un tradimento nel linguaggio, il linguaggio letterario è una cosa e il linguaggio cinematografico è un’altra. Penso di averlo tradito nel modo in cui si devono tradire i romanzi quando si portano al cinema. Del resto io avrei scritto anche altre cose, che non c’entravano niente col romanzo. Volevo che a un certo punto entrassero in una caverna con un enorme ghiacciaio sopra, con dentro tutti i corpi che erano rimasti intrappolati nel ghiaccio. Non lo potemmo fare per un problema di effetti speciali per cui non avevamo i soldi. So di aver tradito il romanzo ma il primo ad essere stato contento è stato Kadaré, moltissime volte ha dichiarato di essere molto favorevole, il film gli è piaciuto. Ne è contento proprio perché è un’altra cosa, prende ispirazione dal suo capolavoro.  Perché il libro è un capolavoro, dovrebbe esser letto nelle scuole italiane già in prima media, se non in quinta elementare, l’ho scritto un paio di volte ma non mi ascoltano.

Le è mai capitato di leggere un altro romanzo e pensare che avrebbe meritato una trasposizione?
Non mi piace l’idea di trasporre al cinema delle altre opere. Lì sono strato transigente, non intransigente, ad un principio che avevo già da prima, di sospetto. Se il libro è bellissimo, atteniamoci alle emozioni che ci dà il libro. Parlavo da lettore però, non da cineasta.
Poi di fronte all’occasione sono stato debole. Avrei voluto vedere qualsiasi altro con Mastroianni che ti implora di fare un film proprio con te e Piccoli che ti dice che vuole farlo assolutamente e lo vuole anche produrre. La tua convinzione vacilla [ride, n.d.r.].
Poi in fondo era un’opera buona, al più avremmo fatto un brutto film e avrei fatto io una brutta figura, al romanzo non sarebbe successo niente, soprattutto se me ne allontanavo. Il romanzo sta lì come forma ispiratrice di pensieri, di commozione o anche di film e di scritti. Però in sé non sono un grande appassionato degli adattamenti, sono appassionato di opere originali.

Non ha mai avuto altri progetti che le sarebbe piaciuto dirigere?
Con Mastroianni avevamo l’impegno di fare altri due film. Avevamo trovato un altro soggetto in cui lui avrebbe fatto il re d’Italia, una bella storia, ma poi è andata male con gli sceneggiatori e noi c’eravamo un po’ stancati. Mi dissi che far la regia non è obbligatorio.
Avevamo fatto conoscere un grande scrittore in Italia, ci eravamo divertiti molto, moltissimo, durante le riprese e dopo. Lui è tornato a far l’attore e io alla fotografia, che è il mio vero amore. Tutti i miei colleghi mi avevano detto che se avessi fatto il regista avrei finito di lavorare, io avevo sempre detto che poi sarei tornato a fare l’autore della cinematografia. Ebbi ragione, appena finito mi chiamò il regista più difficile d’Italia per i rapporti personali, Nanni Moretti, e facemmo Bianca. Avrei smesso di nuovo per fare un altro film con Mastroianni o con Piccoli, per il piacere di lavorare con loro, ma le cose non sono andate così e io ho continuato a fare bei film, di fotografia importante.