Vite da rione napoletano in un “Selfie”. Il doc etico di Agostino Ferrente (con Leopardi) torna (dopo i David) su Rai1
In prima tv domenica 24 maggio (per Speciale TG1, ore 23.20) il doc vincitore del David 2020 “Selfie“, di Agostino Ferrente, già presentato alla 69ª Berlinale e uscito in sala (per Istituto Luce Cinecittà, col patrocinio di Amnesty International) nel 2019. Il regista consegna il suo iPhone a Pietro e Alessandro, sedici anni, nel Rione Traiano a Napoli, dopo la morte dell’amico ucciso per errore da un carabiniere. Ferrente “dirige” la realtà e ottiene un documento che arriva perfino a Leopardi, perché il Rione è come la siepe de “L’infinito” che esclude lo sguardo del resto. Consegnando una parte di realtà che in Italia non si vede quasi mai …
“Preferisco il cellulare” dice Alessandro, sedici anni, nel Rione Traiano a Napoli. Il regista Agostino Ferrente glielo consegna: il suo iPhone per auto-filmarsi insieme a Pietro, stessa età, poco tempo dopo la morte del loro amico Davide Bifolco, sempre sedici anni, ucciso nel 2014 da un carabiniere perché scambiato per un camorrista, come attesta la voce fuori campo.
È un dispositivo semplice quello alla base di Selfie, il film di Ferrente vincitore del David di Donatello 2020 (miglior documentario) e in prima tv nazionale domenica 24 maggio (ore 23.20) all’interno dello Speciale TG1 (dopo la presentazione alla 69ª Berlinale e l’uscita in sala a maggio 2019): offrire il cellulare a due ragazzi, raccogliere il loro “videoselfie” della vita quotidiana, in un quartiere complesso della città.
Attenzione però: i 76 minuti di Selfie sono attentamente diretti dal regista. Non c’è casualità nel congegno, anzi: a tratti l’autore si intuisce davanti ai giovani, in rapporto frontale (ma silenzioso) con loro, e soprattutto è lui che indirizza l’oscillazione del racconto.
Si serve – all’inizio e alla fine – della voice off per connotarlo, inserisce innesti “altri” come le riprese da telecamere di sorveglianza del giorno della tragedia o dalla semplice routine, a mostrare spaccati del Rione. Il regista raccoglie il materiale girato dai protagonisti, certo, ma vi interviene in sede di montaggio per dare senso, perché già nell’accostamento delle immagini sta la costruzione della sostanza, il suo essere politica.
Vediamo quindi Alessandro e Pietro che si filmano: ricordano l’amico morto e si commuovono, mimano il mare in un bar, lavorano, mangiano, parlano tra loro. Di cose comuni: come conquistare le ragazze, Pietro che deve dimagrire.
È così che emerge l’affresco del Rione Traiano, definito dall’intervento di altre figure: ragazze che riflettono sulla propria vita, “aspettandosi” un futuro marito in carcere (come già molti padri), bambini di dieci anni che fumano, lavoro regolare (bar, panifici) che resiste all’evidenza della criminalità.
Lo dimostra il video del pusher che parla di spalle con voce contraffatta, paragonandosi a un operaio, perché lo spaccio è il vero “lavoro pubblico”, in una spiegazione dell’anti-Stato migliore di tanti sociologismi. Il documentario alterna durezze e asperità a momenti sentimentali, passa dalla morte di Davide alla serenata di un padre alla figlia (“Perché è lei la mia amata”).
Ma il precipitato del Rione si trova, paradossalmente, sulla tomba di Giacomo Leopardi nel Parco Vergiliano a Piedigrotta. Qui Alessandro, già bocciato, espone una spiazzante interpretazione de L’infinito dove la siepe del colle diventa il muro simbolico del Rione Traiano che lo intrappola: “Dietro ci sono infinite cose”.
Agostino Ferrente sabota la retorica del cinema napoletano di oggi, anche la più virtuosa, quella che va dai film di Antonio Capuano (ultimo il sottovalutato e lisergico Achille Tarallo: pieno di brani neomelodici come Selfie) a La paranza dei bambini, dove i minori sparano per finta: qui lo fanno davvero, in una disarmante scena gemella del film di Giovannesi.
Il sabotaggio avviene “dirigendo” la realtà: le riprese sono di Alessandro e Pietro, il senso è quello del regista. Il cinema del nostro tempo già si rivolge al cellulare, dagli esperimenti vertiginosi di Soderbergh (Unsane e High Flying Bird) ai registi di guerra siriani (Silvered Water, Syria Self-Portrait e Still Recording).
Selfie lo fa con un film sociale che riguarda anche l’etica del documentario: bisogna mostrare solo cose belle? Alessandro e Pietro si interrogano perfino su questo, prendendo posizioni opposte. E il regista compie un atto herzoghiano: interviene nella ripresa negando ai bambini una sigaretta, con un calembour linguistico (“Se vi scelgo vi togliete il vizio di fumare?”), prendendo una piccola/grande posizione. È un documentario Selfie nel senso etimologico del termine: consegna un documento, una parte di realtà, fa qualcosa che in Italia non si vede quasi mai.
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