Addio Anouk Aimée, la più amata dal cinema europeo. Attrice e icona (anche) letteraria
È morta a 92 anni Anouk Aimée, tra le attrici più iconiche del dopoguerra europeo. Una carriera, la sua, lunga oltre settant’anni e densa di grandi successi, che l’hanno consacrata come attrice dal fascino misterioso. Negli anni ’60 i suoi lavori più celebri, ma anche tanti adattamenti, dall’esordio “Tragica notte” fino al “Generale dell’armata morta” di Tovoli, passando per Romeo e Giulietta e Zola. È il saluto a un’attrice che, come suggerisce il suo pseudonimo, non ha mai smesso d’essere amata…
Subito dopo di lei vennero le BB e le CC, ma nessuno si sognò mai di chiamare lei, Anouk Aimée, AA. Era un’attrice diversa, con un fascino meno ovvio e più scabroso, impossibile da ridurre alle forme e alle iniziali. Andava invece ricercato nelle espressioni enigmatiche e assorte del suo viso. Leggendo della sua morte, annunciata il 18 giugno da sua figlia, Manuela Papatakis, attrice anche lei, il primo pensiero non può che essere proprio quel viso da sfinge.
Aimée era nata nel 1932 a Parigi, anzi meglio nel diciassettesimo arrondissement, il ritaglio di della città in cui gli impressionisti fecero gruppo attorno al Café Guerbois. La sua era una famiglia di attori, con un cognome non da poco per la storia francese: Dreyfus. Ma il cambio di nome germoglia altrove e per altri motivi. Sul set del suo secondo film, l’incompiuto La fleur de l’âge di Marcel Carné, Jacques Prévert la ribattezza Aimée, amata, «perché tutti quanti la amano».
Anouk le arriva invece dal suo primo ruolo. Leggenda vuole che Henry Calef l’abbia adocchiata mentre cenava assieme a sua madre, l’attrice Geneviève Soria, offrendole immediatamente una parte nel suo prossimo film. Era il 1946, Aimée aveva tredici anni e un interesse scarso per il cinema, ma accettò. Il film, Tragica notte, dal romanzo di Paul Vialar, era la storia di un triangolo amoroso tra minatori della Manica, in cui lei interpretava la piccola Anouk. Da quel momento nome e destino rimangono segnati.
Inizia a costruirsi una carriera, la sua filmografia cresce con lei. Ruolo dopo ruolo, arriva finalmente ai registi di punta di quegli anni, in cui la Nouvelle Vague deve ancora infrangersi sul litorale del cinema francese. Con Jean Duvivier ha una piccola parte ne Le donne degli altri del 1957, adattamento di uno dei rami dei Rougon-Macquart di Zola, Quel che bolle in pentola. È invece per Jacques Becker la celebre compagna di Modigliani, Jeanne Hébuterne, in Montparnasse del 1958, che prendeva le mosse dal libro di Michel Georges-Michel. Prima ancora era stata una rivisitazione di Giulietta ne Gli amanti di Verona di André Cayatte, con Serge Reggiani a far da Romeo.
Se però si pensa ad Aimée, alla sua silhouette longilinea, i titoli che vengono in mente non possono che essere quelli degli anni ‘60, in cui si afferma prima e si consacra poi come icona. Primo su tutti è Fellini a ricamarle addosso il ruolo della borghese annoiata ne La dolce vita. È il 1960, il film vince una contestatissima Palma d’oro e lancia definitivamente tutti: Mastroianni, Fellini stesso, Aimée. Tre anni dopo il trio si ritrova, sul set di un capolavoro ancor più amato, 8½, in cui ad Aimée tocca il ruolo delicato della moglie-ancora del protagonista Guido.
Ma sono anche gli anni in cui, in patria, diventa uno dei volti della nuova generazione rampante. Nel 1961 è Lola nell’omonimo film di Jacques Demy, un amore intramontato per la cinefilia, prova ne sia Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti, in cui è il film-talismano del protagonista, da rivedere ogni volta prima di cominciare a girare. Soprattutto, però, nel 1966 Aimée è con Jean-Louis Trintignant la protagonista di Un uomo, una donna di Claude Lelouch (nelle foto), anch’esso Palma d’oro alla Croisette.
Ridurre un’interprete a un solo ruolo è sempre banalizzante, ma è anche vero che ci sono ruoli che sottolineano una carriera, una persona, forse la rappresentano anche. Un uomo e una donna in parte è stato anche questo. Girato con una manciata di franchi, poteva reggersi in piedi solo grazie all’inventiva di quei pochi che ci lavorarono. E se è diventato il capolavoro che è lo si deve proprio a loro, compresi Aimée e Trintignant, che improvvisarono molte delle loro battute.
Vent’anni dopo, Lelouch e i suoi due attori ci riprovarono, andando a sbattere in un flop con Un uomo, una donna oggi. Ripararono, almeno in parte, nel 2019, con I migliori anni della nostra vita. Nel frattempo la carriera di Aimée si era andata diradando, dovendo conciliarla con una movimentata vita privata, costellata da ben quattro matrimoni, che la spinsero a prendersi una pausa negli anni ‘70.
Tornando iniziò a scegliere con cura i suoi registi. Nel 1980 si affida a Marco Bellocchio per Salto nel vuoto, in coppia con Michel Piccoli, per il quale entrambi ricevettero il premio alla miglior interpretazione a Cannes. Un anno più tardi è invece sul set di Bernardo Bertolucci per La tragedia di un uomo ridicolo e nel 1983 ritrova Mastroianni ne Il generale dell’armata morta di Luciano Tovoli, tratto dal romanzo di Ismail Kadaré.
Negli anni ’90 inizia poi a portare a teatro le Lettere d’amore di Albert Ramsdell Gurney, facendosi affiancare di volta in volta da attori diversi: Noiret, Delon, Depardieu, Weber, anche l’immancabile Trintignant. Fino al 2014 quel testo sarà il suo porto sicuro, mentre al cinema continua a lavorare con i suoi autori fidati, senza negarsi qualche sortita in territori nuovi.
La sua filmografia si arricchisce di altri registi di culto: Robert Altman, per cui recita in Prêt-à-porter del 1994, Agnès Varda, che la include tra i mille volti del suo Simon Cinéma nel 1995, senza scordare i lavori precedenti con Sidney Lumet, Dino Risi, Jerzy Skolimovsky.
Ma l’ultimo capitolo della sua filmografia rimarrà proprio I migliori anni della nostra vita, il terzo atto della lunga trilogia di Lelouch. Quasi verrebbe da dire che sia giusto così, anche per illudersi che possa esistere un qualche cosa di corretto nell’ingiustizia della morte. La realtà è che di giusto c’è ben poco. Se non la scelta di Prévert in quel lontano 1947. Aimée, amata. Sì, è andata davvero così.
Tobia Cimini
Perditempo professionista. Spende il novanta percento del suo tempo leggendo, vedendo un film o ascoltando Bruce Springsteen. Nel restante dieci, dorme.
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