In pellegriggio per salvare la montagna. Paolo Cognetti è al cinema con “Fiore mio”

In sala soltanto il 25, 26 e 27 novembre (per Nexo Digital) “Fiore mio”esordio alla regia di Paolo Cognetti, scrittore montanaro che al cinema ha già regalato il suo fortunato esordio letterario, “Le otto montagne” firmato Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, ma anche il suo viaggio sulle tracce di Christopher McCandless con Sogni del grande Nord. Qui è ancora una volta protagonista la “sua” montagna, ma indagata stavolta attraverso il dramma dei mutamenti climatici. Come il Werner Herzog di  “Sentieri nel ghiaccio” col suo viagggio votvo per la guarigione dell’amica malata, Cognetti compie un analogo gesto d’amore e compassione per la montagna i cui ghiacciai si sciolgono …

Dopo Le otto montagne, il libro che gli è valso il Premio Strega nel 2017 e dal quale è stato tratto l’omonimo film diretto da Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch (Premio della Giuria al 75º Festival di Cannes e vincitore di ben quattro David di Donatello, tra cui quello per il miglior film), Paolo Cognetti risale nuovamente le pendici del Monte Rosa con Fiore mio, film del quale è regista, oltre che personaggio principale.

Ma se nel film tratto dal quel successo letterario a sgambettare erano il suo alter ego nella storia Luca Marinelli e il montanaro Alessandro Borghi, ora è l’autore stesso, accmpagnato dallo stesso direttore della fotografia de Le otto montagne, Ruben Impens a percorrere i sentieri di quel versante valdostano che da sempre chiama casa.

Fiore mio è il primo film da regista di Paolo Cognetti, diplomato alla Civica scuola di Cinema di Milano; è stato scelto come evento di preapertura del Festival di Locarno 2024 e sarà nelle nostre sale per tre giorni, il 25, 26 e 27 novembre.

La spinta a mettersi al lavoro un’altra volta per la sua montagna viene da un fatto, apparentemente minuscolo e comunque personale, avvenuto durante la siccità dell’estate del 2022. Per la prima volta a memoria d’uomo si era esaurita la sorgente che alimenta la casa dello scrittore a Estoul, il minuscolo villaggio posto a 1700 metri di quota sopra la vallata di Brusson.

È un avvenimento sconvolgente, al punto da muovere l’autore ad un gesto d’amore, quasi un “prima che sia troppo tardi”, e mostrare la bellezza della sua montagna, dei paesaggi e dei ghiacciai che si stanno inesorabilmente ritirando sotto gli effetti del cambiamento climatico.

Cognetti, presentando il suo lavoro, dice che con Fiore mio (titolo preso dalla canzone di Andrea Laszlo De Simone che chiude il film, mentre la colonna sonora è di Vasco Brondi) si è mosso sulla falsariga de Le 36 vedute del monte Fuji di Hokusai, l’opera che ritrae la celebre cima cambiando continuamente i punti di vista e raccontando la vita che scorre alle varie altitudini: sui suoi fianchi, nelle valli sottostanti, sulla vetta ma anche nelle zone abitate più vicine da dove ancora è visibile il profilo della montagna.

Ma se la pittura di Hokusai pone l’osservatore in una condizione affettuosa ma pur sempre esterna e contemplativa, Cognetti va oltre accompagnando le immagini di paesaggio con il proprio continuo interrogarsi sul destino di quei luoghi; si pone domande alle quali è ben difficile rispondere, come chiedersi quale sia il nostro posto nel mondo o se l’uomo non sia, in fondo, una variabile transitoria e irrilevante (tranne che per i danni che sa causare) a fronte della eterna permanenza di quei paesaggi.

Forse è per questo che sono pochissimi gli incontri: l’amico Remigio, Arturo Squinobal e sua figlia Marta del rifugio Orestes Huette, Corinne e Mia, donne dei rifugi. C’è il silenzioso eppure tagliente Sete, sherpa d’alta quota che ha scalato tre Ottomila – Everest, Manaslu e Daulaghiri – e si divide tra Italia e Nepal: lavora qui d’estate e d’inverno, mentre in autunno e in primavera fa la guida per i trekking in Himalaya, dove ha moglie e figli.
E poi, su tutti, c’è l’adorabile Laki, inseparabile compagno di camminate e vero coprotagonista del film.

Ed è per questo, e in tutto questo, che Fiore mio più che al pittore giapponese del Monte Fuji o, perché no, alle innumerevoli vedute del Mont Sainte-Victoire di Cézanne, in qualche modo riporta a pensare soprattutto al Petrarca dell’Ascesa al monte Ventoso, considerato il primo saggio descrittivo del paesaggio come luogo sentimentale, e l’autore trecentesco come il primo alpinista della storia.

Ma è ancor più inevitabile pensare alla vicinanza con il Werner Herzog più riflessivo, quello di Sentieri nel ghiaccio, ad esempio. Del resto il regista e scrittore tedesco in quell’opera descriveva il suo viaggio a piedi da Monaco a Parigi come un voto laico per la guarigione di un’amica malata. Cognetti compie un analogo gesto d’amore e compassione per la montagna i cui ghiacciai si sciolgono.

Cosa può essere se non un rito devozionale e propiziatorio quel mostrare il raccogliere l’acqua dalle sorgenti o dai rivoli dei ghiacciai per poi versarla al rientro a casa in una ciotola posta al centro della tavola?