In morte di un principe (del cinema). La scomparsa di Alain Delon, gli occhi azzurri che hanno sedotto il mondo

Muore a 88 anni Alain Delon,il 18 agosto, l’attore che più di tutti ha saputo incarnare il fascino seducente del grande schermo. Una carriera immensa, di cui ua buona parte in Italia, impreziosita da capolavori di cui è stato volto e anima, spesso letterari, in un connubio di bellezza e bravura che forse non tornerà mai più. Uomo risoluto e controverso, Delon è stato a tutti gli effetti (e non solo nel “Gattopardo”) un principe del cinema…

«Lei vorrebbe essere Alain Delon?», Marco Messeri lo chiedeva quasi aggressivo a un attonito Massimo Troisi nella celebre scena di Ricomincio da tre. Era il 1981 ed essere Alain Delon significava poter avere tutto. Lo si poteva chiedere come un tempo si sarebbe domandato se essere re o imperatore. Molti anni dopo, il 18 agosto 2024, quando tre dei suoi figli ne hanno annunciato la morte a 88 anni, l’addio ha avuto lo stesso senso di deferenza, come per il protagonista di un’epoca che sembra chiudersi con lui.

Delon, in fondo, principesco lo è stato. Non solo sullo schermo del Gattopardo di Luchino Visconti, in cui il suo immortale principe Tancredi rimarrà per sempre nell’immaginario collettivo. Con tanto di addio accorato della sua Angelica, Claudia Cardinale che si è firmata così nel suo saluto affidato ai media. Ma sovrano assoluto e plenipotenziario di un certo modo d’essere, di un fascino involontario e taciturno, senz’altro altezzoso, indubbiamente impareggiabile. Con il suo sguardo torvo e penetrante dei suoi occhi azzurri non poteva non finire nel cinema, all’ombra del quale era nato nel 1935, figlio del proprietario di una piccola sala di provincia, il Régina.

Un’adolescenza burrascosa lo porta presto nell’esercito (dopo l’abbandono dei suoi genitori al momento del loro divorzio e un’adozione indesiderata), sulle navi francesi in Indocina, ma l’avventura militare si chiude in una cella, reo di essersi appropriato di vario materiale e di una Jeep. È il 1956, Delon ha poco più di vent’anni e vaga per Saint-Germain-des-Près, a Parigi, cercando una nuova strada. Il cinema lo trova così, grazie a Brigitte Auber, sua amante, che poco prima aveva girato Caccia al ladro con Hitchcock, dal romanzo di David Dodge. Con lei finisce per la prima volta a Cannes, incontra Jean-Claude Brialy e si ritrova sul taccuino di David O. Selznick, leggendario produttore statunitense.

La proposta dagli USA è allettante: un contratto di sette anni, unica condizione imparare l’inglese. Ma è un imperativo che basta e avanza per rifiutare. Delon inizia allora a lavorare in Francia, quasi sempre in film letterari. Prima con Godot di Yves Allégret, da un noir di Jean Amila, poi con L’amante pura, in cui Pierre Gaspard-Huit adatta Schnitzler. Sul set di quest’ultimo inizia il primo dei suoi amori più chiacchierati, quello con Romy Schneider, ex principessa anche lei e coprotagonista del film.

Nel 1960 scatta d’improvviso l’ora del successo grazie a René Clément e a Delitto in pieno sole, in cui adatta Il talento di Mr. Ripley di Patricia Highsmith, riservandogli la parte principale. Per il giovane attore è un trionfo, un ruolo minore c’è anche per Schneider. Non molto tempo dopo, nel 1969, la coppia sarà anche ne La piscine di Jacques Deray, in cui l’erotismo trabocca sui bordi di una villa a Saint-Tropez. Nella vita le loro strade si erano già divise, ma lui si batté con forza per averla al suo fianco anche in quel film.

Prima di quel 1969, però, c’era stata la prima decade d’oro della sua carriera. Inaugurata dal film di Clément, ma suggellata definitivamente dall’incontro con Luchino Visconti, fulminato dal suo magnetismo. Dopo aver lavorato assieme a teatro, il regista lo vuole protagonista di Rocco e i suoi fratelli, uscito nel 1960 e ispirato ai racconti de Il ponte della Ghisolfa di Giovanni Testori. È una scommessa: può un seduttore francese essere calato nella parte di un operaio lucano immigrato a Milano? La risposta la si trova scolpita sullo schermo e nella storia del cinema.

Visconti lo tiene con sé per il film immediatamente successivo, Il Gattopardo, tratto ovviamente da Tomasi di Lampedusa, consacrandolo nel suo ruolo più iconico, forse quello che più di tutti sapeva ricalcare alla perfezione il suo viso sfidante ed enigmatico. In mezzo ai due capolavori del regista milanese, Delon infila un altro titolo indimenticabile, L’eclisse di Michelangelo Antonioni, nel 1962, in cui recita affianco a Monica Vitti.

Gli anni ‘60 sono i più fulgidi del suo principato cinematografico: produce L’insoumis di Alain Cavalier, provocatorio film sull’Algeria, prova a lanciarsi a Hollywood, torna in Francia e comincia l’indimenticabile sodalizio con Jean-Pierre Melville, grazie a Il samurai del 1967. Nel 1968 è anche il protagonista dell’episodio diretto da Louis Malle in Tre passi nel delirio, ispirato ai racconti di Edgar Allan Poe.

La fine del decennio lo vede travolto da un brutto fatto di sangue, la morte del suo bodyguard jugoslavo Stefan Markovic, per cui passa qualche tempo agli arresti domiciliari. Ma la sua attività non si ferma, anzi si intinge ancor di più nel calamaio noir in cui Melville lo ha reso una stella. Con Borsalino del 1970, ancora una volta diretto da Deray, recita per la prima volta assieme al rivale di sempre, Jean-Paul Belmondo. Non resiste allo sgarro, promette al collega la priorità nell’ordine dei nomi sul poster, ma poi in qualità di produttore mette in cima «Alain Delon presenta». Belmondo è una furia.

Più avanti, con registi italiani meno avvezzi ai riflettori, conquista l’Oriente. Con lo spaghetti western Sole rosso di Terence Young diventa un’icona in Giappone, fama da cui trarrà grandi profitti per anni facendo da testimonial per varie campagne pubblicitarie. Con il letterario Zorro di Duccio Tessari (sceneggiato da Giorgio Arlorio), invece, si guadagna anche un posto tra gli idoli della nascente Repubblica Popolare Cinese, dove il film è una delle prime produzioni occidentali di cui viene permessa la proiezione.

Negli anni ’80 si concede anche un paio sortite dietro la macchina da presa, la prima con Per la pelle di un poliziotto, liberamente ispirato al romanzo di Jean-Patrick Manchette e interpretato dalla sua compagna dell’epoca, Anne Parillaud. In quegli stessi anni riceve il suo unico César per Notre histoire di Bertrand Blier, un magro bottino per un’icona come lui, forse in parte risarcito dalla Palma d’oro alla carriera del 2019.

Una carriera che d’altronde rimarrà effettivamente irripetibile, così colma di ruoli che si corre il rischio di dimenticarne alcuni fondamentali, dal barone di Un amore di Swann, adattamento del primo libro della Recherche diretto da Volker Schlöndorff al Mr. Klein di Joseph Losey, sceneggiato da Franco Solinas, inizialmente destinato a Costa-Gavras. E ovviamente il compendio letterario di Godard nel 1990, Nouvelle Vague.

Fuori dallo schermo, Delon non è mai stato un uomo facile, lasciando spazio a tanti episodi che oggi tornano a galla in un ricordo sfaccettato e anche controverso. Basti pensare alla politica, in cui si professò sempre gaullista della prima ora, vantandosi con gusto dell’amicizia con Jean-Marie Le Pen, invitato alla cerimonia con cui Jack Lang gli consegnò il titolo di commendatore.

Nonostante tutto questo, a quella domanda di Misseri, Troisi timidamente rispondeva che sì, certamente avrebbe voluto essere Alain Delon. Perché è difficile, a volte impossibile, spogliare un principe del suo fascino. Davanti a questo sipario che cala, abbiamo scoperto che non ci è riuscita neppure la morte.