Al cuore della grande illusione americana

Undici racconti ispirati ad undici brani: dal Boss a Tom Waits, passando per Guy Clark fino a James McMurtry. È America 2.o* di Fabio Cerbone, più che un libro una sorta di esperimento crossmediale tra musica e letteratura. E perché no, anche cinema…

NEBRASKASe si ragiona con gli occhiali di chi fa cinema, si può dire che sia l’esatto contrario della procedura. Della procedura tradizionale. Qui si parte dalla colonna sonora, dalle musiche, dalle parole di quelle canzoni. Il resto, ne discende a cascata.

 

America.2.o* è uno strano libro. Per cominciare è l’esordio in narrativa di Fabio Cerbone. Giornalista, saggista, conduttore radiofonico, ha alle spalle una lunghissima produzione: tanti volumi, tutti dedicati alla musica americana. Al rapporto fra la musica americana e quel mix di speranze, ambizioni e frustrazioni che la rendono possibile. A New York come a Minneapolis. Fino ad ora, però, s’è trattato di saggi. Anche se non proprio saggi accademici, scritti come può fare solo chi non solo studia la materia ma la ama, la “vive”. La interpreta. america_cover

Ma il libro è strano soprattutto per il metodo adottato. Cerbone parte da undici canzoni, undici brani scelti. Da Used Cars, dello Springsteen essenziale di Nebraska, fino ai $ 29.00 di Tom Waits, passando per Guy Clark, per uno dei fratelli Blasters – Dave Alvin -, fino a James McMurtry, l’amico colto di John Mellencamp.

Undici brani, un vero e proprio cd, che non segue un ordine cronologico, né una ricerca stilistica.  Anche se tutte insieme, quelle canzoni, in fondo raccontano la stessa trama: quella di un’America dove i destini sembrano già segnati e nessuno può fare nulla per contrastarli. La raccontano col rock, col folk-rock, col blues, con l’honky tonky, la raccontano con qualsiasi cosa: ma sempre e solo di un’America che illude e abbandona. E da questa mini-selezione, l’autore trae spunto per raccontare undici short-stories. Inventate, ispirate ciascuna ad una canzone.
Lo sforzo è quello di tenere nei racconti il ritmo dei brani musicali. In Michigan Avenue, per dirne una, le undici pagine che aprono il libro – che si ispira a Used Cars del boss – pochi tratti bastano a tratteggiare le speranze di una famiglia di colore di Chicago, che vuole cambiare la propria auto. Poi, sempre con poche battute, quel clima di speranza, di “quasi festa” si disperde nella malinconia di chi è costretto a fare i conti con la discriminazione razziale. Magari non dichiarata, non aggressiva come 50 anni fa, ma ancora discriminazione. E finisce con l’amara constatazione che non è possibile cambiare. Il racconto si “spegne”, proprio come il brano di Springsteen.

Lo stesso vale per tutte le canzoni. Con racconti più o meno riusciti. Più o meno ispirati. Dalla scontata storia della ragazza, stretta fra povertà e consuetudini che sa ribellarsi solo con la morte (e dove superficialmente ci si può trovare qualcosa di Townes Van Zandt) ai bellissimi dialoghi di Johnny. Che volutamente sembra non avere una trama ma solo parole. Quelle fra un padre e una madre che appaiono soddisfatti della loro “normalità” e del loro figlio che non sa cosa vuole, ma sa solo che quella normalità non fa per lui.

Capitoli riusciti, altri meno, si diceva. Ma tutti legati da un filo: palese, evidente. Dichiarato. Tutti legati dalla descrizione di un paese che sembra capace solo di giocare a roulette col proprio destino. Che invece è già segnato, è sempre uguale: fatto di sconfitte, una dopo l’altra. Eppure quei protagonisti non smettono di scommetterci sopra, illudendosi sempre di avere una seconda possibilità. Che si rivela perdente come la prima.

Certo, potrà obiettare qualcuno, tradurre una canzone in un altro linguaggio è un’operazione rischiosissima. Senza scomodare grandi riferimenti, basta ricordare il video di Michelangelo Antonioni che illustrò un brano di successo di Gianni Nannini. E quando la rocker nostrana cantava “questo amore è una camera a gas”, il regista faceva vedere una stanza che si riempiva di fumo. La didascalia sublimata ad arte.
La traduzione delle suggestioni che offre la musica, soprattutto di quella musica cara a Fabio Cerbone – che è stata la vera colonna sonora di un’intera generazione, la mia – comporta dei rischi, insomma. Perché i quattro accordi di Dave Alvin che accompagnano quelle terribili parole in Border Radio (“lei continuava a chiedersi perché se n’era dovuto andare”) forse sono più potenti di quelle quindici pagine dove si raccontano le ansie, le microscopiche gioie, le paure dei migranti messicani.
Libro rischioso, dunque. Ma è come se si trattasse di un azzardo a metà: dalla musica alle parole.

È come se mancasse qualcosa. Allora forse al racconto e alle note andrebbero aggiunte anche le immagini. Un film, insomma, un film con quelle undici storie. Per valutare davvero l’esperimento, per capire una volta per tutte se la musica si può tradurre.

(noi abbiamo scelto le immagini di Nebraska di Alexander Payne)